Il nuovo capo Isis e il sogno di un’Europa resa schiava

4 Novembre 2020

L’Isis deve ancora riguadagnare qualcosa di simile allo slancio che aveva a metà del 2014, quando minacciava l’ordine regionale dopo che Abu Bakr al-Baghdadi si era proclamato califfo del mondo islamico. Il leader dello Stato Islamico è stato ucciso giusto un anno fa a Idlib, l’organizzazione ha perso il suo ultimo lembo di terra nei deserti della Siria orientale, migliaia di suoi miliziani sono morti o imprigionati, ma l’Isis è oggi più grande di quanto non fosse quasi sei anni fa, quando nacque il califfato.

Le reti dei miliziani islamisti sono ancora attive specie nel nord dell’Iraq e città come Mosul restano il crogiolo delle attività terroristiche, i campi di Al-Hol e Al-Roj – controllati dalle forze curdo-siriane – che “ospitano” migliaia di miliziani arabi e con loro oltre 2.000 foreign fighters occidentali sono il focolaio dei nuovi combattenti islamisti. C’è poi la “rete liquida” che ha appoggi in città europee come Parigi e Bruxelles. Il web, le chat criptate nascoste in giochi interattivi, Facebook e altri social media sono i canali di comunicazione con una nuova generazione di giovani che aspirano ad andare a combattere in Siria – ma erano troppo giovani nel 2014 per farlo – e che loro malgrado sono rimasti nei Paesi di origine, proprio come l’attentatore di Vienna. Cellule, di quattro-cinque persone, “dormienti” ma pronte ad attivarsi. E che godono di complicità all’interno dei Paesi europei, altrimenti è difficile spiegarsi come fucili, mitragliatori e pistole siano arrivati a Parigi, come a Bruxelles e – come abbiamo scoperto lunedì notte – anche a Vienna. Chi ha dato le armi al giovane killer islamista che ha colpito nella Capitale austriaca? È questa una delle domande cui i servizi segreti occidentali dovrebbero dare una risposta. Il lockdown in Europa per il Covid-19 – definito dall’Isis “un soldato di Allah” – ha accresciuto il traffico del web nel corso dei mesi primaverili, soprattutto tra le fasce giovanili. E come prevedibile ha avvicinato anche molti giovani alle pagine che professano il jihad islamico e i reclutatori che non si sono fatti cogliere impreparati. La testa e la mente della piovra islamista sono ancora seriamente attive fra le macerie lasciate dalla guerra in Siria e soprattutto in Iraq, come dimostrano i 60 attacchi al mese contro le forze irachene. L’uomo che ha concepito la nuova strategia dello Stato Islamico è Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi, nome di battaglia al-Quarayshi, il successore di al-Baghdadi. Uno dei membri fondatori dell’Isis che ha guidato la riduzione in schiavitù della minoranza yazida irachena e supervisionato le operazioni in Europa del gruppo. Nato in una famiglia turkmena irachena nella città di Tal Afar, 44 anni fa, è uno dei pochi boss islamisti a non essere arabo. La sua ascesa è stata aiutata dal suo background di studioso islamico, ha conseguito una laurea in Diritto della sharia all’Università di Mosul, ma soprattutto è stato detenuto dalle forze americane nel 2004 nella prigione di Camp Bucca – meglio nota come l’“Università del jihad’ – e dove conobbe al-Baghdadi. L’intelligence irachena, quella curda e quella occidentale non hanno idea di dove si trovi, l’unica foto che hanno è quella segnaletica scattata ai tempi della sua prigionia, poi il nulla. La caccia ad al-Salbi si è estesa anche in Turchia, dove suo fratello Adel è il rappresentante di un partito politico chiamato Turkmen Iraqi Front, ma i contatti fra i due si sono interrotti quando è stato nominato leader dello Stato Islamico. Ansioso di andare avanti, il presidente Usa Donald Trump ha dichiarato la vittoria sull’Isis frettolosamente come fece George W. Bush nel 2003 nel celebre discorso sulla portaerei che incrociava nel Golfo Persico. La guerra contro l’Isis è invece ancora in corso, anche se a Washington quando parlano del conflitto lo fanno per esprimere il loro desiderio di ritirare le truppe al più presto.

La realtà suggerisce però che una vittoria definitiva sulle reti dello Stato Islamico rimane fuori portata. Anche dopo che l’America ha speso miliardi di dollari durante due presidenze per sconfiggere l’Isis, dispiegato truppe in Iraq e Siria e sganciato migliaia di bombe, lo Stato Islamico resiste. Anzi, è pronto a sfruttare l’impazienza Usa di porre fine alle “guerre per sempre” americane e spostare l’attenzione del paese sulla lotta contro l’Iran. “L’Isis è ancora intatto”, ha denunciato in un’intervista al Guardian Mansour Barzani, primo ministro del Kurdistan iracheno. “Sì, hanno perso gran parte della loro leadership. Hanno perso molti dei loro uomini capaci. Ma sono anche riusciti a guadagnare più esperienza e ad attrarre più persone intorno a loro”. Barzani è in grado di saperlo, perché ha avuto un posto in prima fila nella guerra contro l’Isis fin dall’inizio. Prima di diventare primo ministro, Barzani è stato un influente partner degli Usa nella guerra contro l’Isis come massimo funzionario della sicurezza nella regione curda irachena, che è semiautonoma dal governo centrale di Baghdad. A più di cinque anni dall’inizio della guerra guidata dagli Stati Uniti – e dopo molte dichiarazioni di Trump che annunciano la sconfitta dello Stato Islamico – il gruppo dispone ancora circa 20.000 combattenti in Iraq e Siria, secondo Barzani. Erano 10.000 quando al-Baghdadi annunciò la nascita del califfato nell’estate del 2014. L’Isis sta ancora riuscendo a portare a termine 60 attacchi al mese solo in Iraq contro forze di sicurezza e rivali locali, dice Barzani. E ci sono anche i denari per pagare i nuovi miliziani; secondo l’Onu, l’Isis dispone di almeno 100 milioni di dollari nelle sue riserve.

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