L’ntervista - Matthew Goodwin il politologo britannico

“Se vincerà Biden, sarà perché è diventato più simile a Trump”

2 Novembre 2020

Attento osservatore del populismo e degli sviluppi politici fra le due sponde dell’Atlantico, Matthew Goodwin è un politologo e accademico britannico. È salito agli onori delle cronache nel mondo anglosassone con il suo libro National populism del 2018. Le sue analisi, spesso pungenti e controcorrente, lo rendono uno dei giovani intellettuali europei più interessanti.

Quali sono i fattori trainanti delle elezioni americane?

Le elezioni ci offrono la possibilità di vedere se il liberalismo ha una risposta significativa al populismo. Donald Trump ha vinto nel 2016 perché ha preso in contropiede i democratici nel desiderio di protezione economica e di protezione culturale. Quest’anno, però, Joe Biden si è spinto più oltre di Hillary Clinton nel protezionismo, nella tassazione, nel supporto al “Made in America”. Se riesce a sconfiggere Trump, penso che sarà per questi motivi.

Sono più importanti i temi culturali o quelli economici?

Per la maggior parte degli americani l’economia è la questione principale: su questo Trump ha ancora un vantaggio. Ma sappiamo anche che gli americani sono preoccupati per il coronavirus e, in misura minore, per la sanità. E le questioni culturali come immigrazione e terrorismo sono scese nella lista. Questo rende ancora più difficili le cose per Trump.

Trump ha mantenuto le sue promesse agli emarginati che lo hanno votato nel 2016?

In alcuni settori chiave sì: Cina, tasse, costruzione di una parte del muro e in generale reazione contro il “consenso liberale”. Non tutte queste politiche hanno portato benefici agli elettori “emarginati”, ma alcune sì. Con la crisi, però, Trump ha perso slancio.

Quali sono le principali differenze tra Boris Johnson e Donald Trump?

Anche se gioca su temi populisti, Johnson è istintivamente un liberale sociale ed economico. Trump invece è un “populista puro”, che si colloca nella tradizione nazional-populista americana.

Come giudica la strategia del governo britannico nella crisi?

Mediocre. Anche ora che passiamo a misure più localizzate, continuiamo a non avere una strategia seria. Johnson ha sempre immaginato che la sua premiership avrebbe riguardato la Brexit, la costruzione di una “Gran Bretagna globale” e il miglioramento delle condizioni delle regioni emarginate dell’Inghilterra. In realtà, si è trasformata nella gestione di una crisi. E ora sappiamo che non è molto bravo in questo.

Qual è il ruolo del Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak in questa fase?

È diventato molto popolare, ed è facile esserlo quando si dà denaro. Ma non abbiamo ancora una strategia economica chiara per il futuro.

I Tories stanno adottando un approccio keynesiano in economia?

I Tories sono economicamente conservatori e si troveranno a disagio con il livello del debito pubblico. La crisi è costata circa 2 trilioni di sterline ed è chiaro che le tasse devono aumentare. Johnson ha vinto le elezioni perché ha promesso di fare di più per la parte emarginata della Gran Bretagna. Perciò, in teoria, le corporation e chi ha un reddito più alto dovrebbero pagare di più, ma non è chiaro se questo approccio genererà ricavi sufficienti. È dunque probabile che vedremo aumenti più generalizzati della tassazione.

Il partito laburista ha qualche possibilità di riconquistare gli elettori del red wall?

L’unico modo per farlo è affrontare le questioni culturali che interessano a quegli elettori. In tutti i partiti di centrosinistra in Europa c’è un problema fondamentale: i leader vengono dalla classe media, sono professionisti e liberali. Hanno valori e punti di vista in contrasto con quelli dei loro elettori della classe operaia, più conservatori sui temi sociali. Ecco perché le questioni della Brexit e dell’immigrazione sono penetrate nel cuore delle regioni laburiste come un coltello caldo nel burro. I lavoratori erano d’accordo con Johnson sui temi culturali, anche se la pensavano come Corbyn sull’economia. Perciò, i laburisti devono mostrare a quegli elettori che possono trovarsi in sintonia con loro sulla cultura e sull’identità. Di solito, le persone di sinistra derubricano ciò a “razzismo”, il che è ridicolo. Patriottismo e nazionalismo non sono la stessa cosa.

Qual è oggi la strategia vincente in politica?

La nuova formula vincente è tendere un po’ a sinistra sull’economia e un po’ a destra sulla cultura: fare di più sulla ridistribuzione e sulle disuguaglianze e rafforzare allo stesso tempo lo Stato nazione. È una risposta naturale a decenni di globalizzazione basata sul mercato, che ha mostrato poco rispetto per le cose a cui gli elettori comuni tengono di più: famiglia, tradizione, cultura e comunità. Non basta tornare al liberalismo sociale ed economico degli anni 90, quando le élite si erano illuse nel pensare: “è l’economia, stupido” (slogan della prima campagna di Bill Clinton, ndr). Se c’è uno slogan per il nostro tempo, è qualcosa di diverso: “è anche la cultura, stupido”.

Questa strategia può essere integrata in una nuova forma di populismo meno reazionario?

Penso di sì. Ma è possibile per i partiti mainstream affrontare queste problematiche anche senza ricorrere al populismo. Decenni fa lo facevano: tra il 1945 e il 1970 la maggior parte dei politici laburisti in Gran Bretagna era apertamente patriottica e si preoccupava con passione di quello che succedeva ai lavoratori. L’inizio della “politica dell’identità”, invece, ha posto un grande dilemma per la sinistra. Vista con gli occhi della maggior parte degli elettori, si sta allontanando dalle sue origini per focalizzarsi molto di più sull’etnia che sulla classe sociale.

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