Anche i giornalisti hanno delle colpe rispetto al virus

30 Ottobre 2020

Oggi parliamo di noi. Di noi giornalisti. Ed è il caso di farlo adesso, mentre tutta la stampa è impegnata nelle sue doverose, ma spesso tardive, denunce. Con la pandemia che impazza e la paura che sale, in tv e sui giornali si racconta degli errori dei politici, dei litigi dei virologi, della storica inefficienza della burocrazia, della folle estate degli italiani. Tutto giusto. Tranne per un particolare.

Manca un nome in questo elenco di imputati, o meglio manca una categoria: la nostra. Sì, perché in questi mesi troppo spesso l’informazione ha dimenticato uno dei suoi doveri: l’avere coscienza del proprio ruolo. Perché quello che si scrive, si dice o si sceglie di trasmettere ha sempre delle conseguenze. E, specie quando la collettività corre dei rischi mortali, è eticamente sbagliato e per tutti dannoso inseguire solo gli ascolti e le vendite, senza riflettere e contestualizzare.

Quante trasmissioni sono state organizzate per dire che tutto era di fatto finito? Per raccontare che il solo problema era l’economia. Quanto spazio è stato dato a ospiti negazionisti o para-negazionisti? Prendete ad esempio Giulio Tarro (ma si potrebbero fare molti altri nomi), il medico in pensione certo che con l’estate l’epidemia sarebbe scomparsa. A partire dalla primavera è stato invitato decine di volte in tv per illustrare la sua sballata teoria. Il 99,9 per cento della comunità scientifica affermava il contrario e qualunque giornalista che avesse voluto documentarsi avrebbe compreso il suo errore.

Tarro però veniva intervistato di continuo. Con l’ipocrita accortezza di mettergli al fianco un’altra campana: un esperto pronto a dirgli che sbagliava. In questo modo chi conduceva il programma o faceva il giornale poteva lavarsi la coscienza dicendo: “Cosa volete da me? Io ho fatto solo cronaca, ho dato spazio a tutti”. Ma fare il giornalista significa anche saper selezionare e gerarchizzare le notizie.

Se, ad esempio, in tv un intervistato dice che il mare è giallo e un altro risponde che è viola, chi lavora nei media deve spiegare che è blu. E far tacere chi delira. Non solo per amore di verità. Ma soprattutto perché in un Paese con 37mila morti per Covid alle spalle, chi è cosciente del proprio ruolo non incentiva con informazioni distorte comportamenti che mettono a rischio la salute di tutti.

Stesso principio vale per i politici. Ovviamente chi tra loro ostentava il volto senza mascherina o difendeva la riapertura delle discoteche, visto che siamo in democrazia, non andava censurato. Ma il nostro dovere era quello di sottolineare, dati alla mano, l’errore. Direte voi: questo in Italia non avviene perché stampa e tv sono quasi sempre schierate politicamente. Vero, ma non del tutto. Perché la questione centrale è il modo con cui è strutturata l’informazione.

Solo da noi i talk politici vanno in onda su tutte le reti da mattina a sera. Non solo per linea editoriale (gli editori della Rai sono i partiti, quello di Mediaset è un capo-partito), ma soprattutto per questioni economiche. I talk costano poco. Gli ospiti non sono in genere pagati e le loro chiacchiere permettono di far scorrere il tempo senza mandare in onda veri servizi giornalistici o programmi d’intrattenimento di altro tipo (che invece costano molto).

Ma se con educazione e fermezza, utilizzando con tutti lo stesso metro di giudizio, ci si mette seriamente a contestare le eventuali affermazioni false, gli ospiti non vengono più e vanno da qualche altra parte. E il talk a basso costo muore. Così ora, anche per colpa nostra, a morire saranno tanti italiani.

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