La rotta turca - Dopo i Balcani, la Libia

Migranti, Erdogan ricatta la Ue. La risposta non è l’accoglienza

La reazione - Accettare i disperati che Tripoli ci manda con l’aiuto del sultano, non aiuta né africani né europei

Di Alessandro Di Battista
28 Ottobre 2020

L’esercito turco ha cominciato l’addestramento della Guardia costiera libica. L’ha annunciato il ministero della Difesa di Ankara. Erdogan, dopo aver salvato Al-Serraj dall’offensiva di Haftar, passa all’incasso e mette le mani sulla rotta dei migranti del Mediterraneo centrale. Un tempo si cercava di dominare le rotte commerciali. Potenze mondiali nacquero grazie al controllo di Suez e dello Stretto di Gibilterra o di Malacca. Oggi, con la crisi della globalizzazione e con la crescita delle diseguaglianze economiche a livello mondiale causa pandemia, il controllo dei flussi migratori è diventato un’arma strategica. La Turchia è entrata in guerra in Siria per il petrolio, per indebolire Assad, per spartirsi un pezzo del business della ricostruzione e ha ingrossato il proprio esercito di migranti: una “legione straniera” di disperati da poter schierare sul confine greco o bulgaro e ottenere in cambio da Bruxelles tutto quel che si vuole.

Erdogan si è assicurato dalla Ue miliardi di euro, il via libera alla dottrina Mani Vatan (Patria Blu) – il controllo del Mediterraneo orientale – e la libertà di azione contro i curdi e gli armeni in Nagorno Karabakh. Erdogan si muove da sultano, reprime il dissenso interno, muove le sue truppe e l’Europa che fa? “Si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”. L’Ue è miope, lacerata, succube di Washington, fiaccata dalla pandemia e da scelte fallimentari. Nel 2011 i francesi colpirono Gheddafi con l’obiettivo di indebolirci e di vendicarsi, una volta per tutte, del sostegno che un pezzo di Stato italiano diede alla lotta di liberazione algerina. Risultato? L’Italia, grazie a Napolitano e alla pavidità di Berlusconi uscì con le ossa rotte ma a indebolirsi fu tutta l’Europa, travolta da atti terroristici e ondate migratorie. Per non parlare delle sanzioni alla Russia e all’Iran imposte da Washington per ferire Putin e il governo degli Ayatollah ma che hanno colpito gli interessi europei, italiani in primis. Anche i flussi migratori, che aumenteranno quando la pandemia finirà, travolgeranno soprattutto un’Europa incapace di comprendere che l’unico sostegno per gli africani è garantire loro il diritto a non emigrare. Che Erdogan utilizzi i migranti come arma ricattatoria è noto. Ne ebbi conferma quando visitai Usivak, un centro accoglienza a 40 km da Sarajevo. A Usivak mi portò Amir, un ragazzo di Herat, città dell’Afghanistan occidentale. Era arrivato in Bosnia dopo aver attraversato l’Iran, la Turchia, la Bulgaria e il Kosovo. Indossava una mimetica recuperata nel campo profughi, una pashmina con i colori del suo Paese e l’anello sciita. Ci siamo conosciuti alla stazione di Ilidža. A Ilidža ci si arriva con il tram num. 3 che parte dal centro di Sarajevo e percorre la città da nord a sud costeggiando la Miljacka, il fiume di quella che era la Gerusalemme d’Europa, ma che durante l’assedio si è trasformata nella città dei cimiteri. Il tram lambisce il punto dal quale Gavrilo Princip sparò all’Arciduca Francesco Ferdinando; poi fiancheggia il mercato cittadino dove due bombardamenti serbi uccisero 111 civili; infine attraversa la periferia di Sarajevo dove sui casermoni popolari ci sono ancora i segni delle granate mentre i polmoni di chi li abita sono segnati dalle ciminiere delle fabbriche costruite tra i palazzi per volere dei governi jugoslavi. All’ingresso del campo c’erano una trentina di ragazzi. Erano afghani, pachistani, siriani e marocchini. Quella mattina avevo visto molti giovani marocchini bere yogurt al centro di Baščaršija, la parte ottomana di Sarajevo. Mi stupì incontrarne così tanti. Mi spiegarono che era più facile entrare in Europa attraverso i Balcani che via Gibilterra. Erano tutti arrivati a Istanbul in aereo e senza bisogno del visto. La Turkish airlines ha collegamenti con sei città marocchine: Casablanca, Marrakesh, Agadir, Fès, Oujda e Tangeri. I ragazzi di Tangeri vedono l’Europa a occhio nudo, sta lì, davanti a loro, eppure per raggiungerla prendono un aereo, oltrepassano il Bosforo e attraversano tutta la penisola balcanica prima di cercare di entrare a Graz o Trieste.

A Erdogan non bastava il controllo della rotta balcanica. Ecco una delle ragioni della penetrazione turca in Libia. Davanti a tutto questo è evidente che non possa essere l’accoglienza, ancor di più se interessata, la modalità per affrontare i flussi migratori.

È appena uscito Il diritto di non emigrare, un libro del Prof. Pallante. Pallante, pur apprezzando i sostenitori dell’accoglienza generosa, sostiene che accogliere non affronti nessuna delle ragioni per le quali milioni di africani lasciano le loro case. Inoltre sottolinea quanto le politiche dei respingimenti e quelle dell’accoglienza interessata, siano due facce della stessa medaglia: quella dello sfruttamento. C’è chi sfrutta i migranti per racimolare voti cavalcando la paura e chi li sfrutta per tentare di tenere in piedi un sistema basato sulle diseguaglianze.

Nel libro c’è una frase pronunciata da Boeri, ex presidente dell’Inps: “Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano 8 miliardi di euro in contributi e ne prelevano 3. Un giorno avranno la pensione però molti torneranno al loro Paese d’origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto”.

Questo concetto è intriso di inconsapevole razzismo. Così come è razzista la narrazione relativa ai migranti che fanno crescere il Pil, che fanno lavori pesanti e sottopagati che versano contributi che non vedranno mai. Questo è sfruttamento, affarismo, speculazione sulle disgrazie altrui. I flussi migratori aumenteranno se non cambieremo del tutto il paradigma con il quale affrontare il fenomeno. L’accoglienza è una virtù, ma non è utile alle rivendicazioni africane quanto il sostegno ai gruppi politici che lottano per vivere dignitosamente a casa propria.

È stata pubblicata l’ultima enciclica di Bergoglio, Fratelli tutti. Scrive il Papa: “Coloro che emigrano sperimentano la separazione dal proprio contesto e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura riguarda le comunità di origine che perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti e le famiglie quando migra uno o entrambi i genitori, lasciando i figli nel Paese di origine. Di conseguenza, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra”. Il diritto di restare a casa propria è la chiave per affrontare la tragedia dei flussi migratori. Altro che porti chiusi o cooperative aperte. Ne va del futuro degli africani e degli stessi europei. Ancor di più oggi che uomini politici senza scrupoli trattano i migranti come armi per le loro estorsioni.

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