Per “la Repubblica” 2.0 i ribelli neri sono l’Isis

3 Agosto 2020

Me ne infischio se qualche zoticone mi accuserà di fare il censore o il sacerdote del “politicamente corretto”.

Trasecolo ugualmente imbattendomi sulla prima pagina di Repubblica, con seguito nel suo paginone culturale, di un testo che in altri tempi su quel giornale mai sarebbe stato pubblicato senza prenderne le dovute distanze; magari tra i commenti e sottoposto a contraddittorio. Il titolo suona vagamente spengleriano, sulla scia del tramonto dell’Occidente: “Dalla mia finestra osservo New York cancellare la Storia”.

A cancellare, niente meno, la storia americana sarebbe il movimento di protesta antirazzista Black lives matter. E la finestra da cui viene osservato cotanto scempio è quella del designer Gaetano Pesce, autore delle “riflessioni d’artista” che seguono.

Pesce manifesta ribrezzo nei confronti della “prepotente protesta di certa minoranza afroamericana”, fomentata da “bande di professionisti della ribellione” – poteva mancare? – “probabilmente finanziati da misteriosi sostenitori”. Manca il solito nome di Soros, agitato continuamente a mo’ di spauracchio da Trump, ma l’insinuazione basta e avanza.

Pur riconoscendo deprecabile l’omicidio di George Floyd ad opera di “un poliziotto con gravi problemi psico-fisici” (poverino, ndr), Pesce non esita a far suo un paragone infamante: “Le gravi proteste-sommosse e relative distruzioni accomunano i loro fautori ai reazionari dell’Isis… e ai talebani quando fecero esplodere le grandi statue di Buddha”. Un bel modo di etichettare sulla progressista Repubblica il nuovo movimento per i diritti civili. Accusato di abbattere monumenti eretti in onore non solo degli eroi americani, ma anche di Gesù Cristo e di Santa Maria.

Lanciato in un’ardita contrapposizione tra “i malanni e le ingiustizie” che colpiscono la minoranza afroamericana e la sopraffazione maschile sulle donne, Pesce rincara la dose: la componente femminile è oppressa anche nella minoranza afroamericana e “sicuramente nel continente Africa”. Come dire: a che titolo protestate voi neri, proprio voi che in Africa opprimete le donne? Ennesimo stereotipo di matrice colonialista travestito da denuncia sociale.

Non manca, ovviamente, la più diffusa storpiatura del pensiero di Pier Paolo Pasolini che avrebbe scelto di stare dalla parte dei poliziotti contro “le orde di giovani europei”, dei quali “la stragrande maggioranza trovava un passatempo nel bruciare, rompere, demolire, rubare, ecc.”. Roba da neurodeliri.

Orbene. Qui non si contesta al nuovo corso di Repubblica di mettere in pagina simili corbellerie, se le ritiene interessanti nel contenuto o per l’autorevolezza del firmatario. Ma che senso ha farlo così, alla chetichella?

Siamo al corrente delle aspre polemiche seguite alla pubblicazione nella (più adatta) pagina delle opinioni del New York Times di un intervento del senatore Tom Cotton che invocava l’uso dell’esercito contro i manifestanti. Tale scelta portò alle dimissioni del responsabile di quella pagina e, in seguito, di un’editorialista filo-Trump. Un grande quotidiano d’opinione definisce il suo profilo non solo con quel che pubblica, ma anche per come lo pubblica. Per intenderci, dubito che La Repubblica che conoscevo io avrebbe messo in pagina le tesi islamofobe di Oriana Fallaci senza sottoporle a obiezioni di pari rilievo.

Pregherei di non invocare a difesa di quella che spero di poter considerare solo una (grave) leggerezza il recente manifesto di 150 intellettuali americani contro il conformismo censorio della cosiddetta cancel culture. Per carità, nel mio piccolo, lo avrei firmato anch’io. Ma tra il rivendicare la libertà d’espressione con la sua inevitabile, scomoda ma necessaria pluralità dei linguaggi, e lasciare libero sfogo a farneticazioni grossolane elevate alla dignità della pagina culturale, ce ne corre.

Grazie al cielo possiamo condannare l’abbattimento delle statue pur riconoscendo che Black lives matter non è cancellazione bensì passaggio fondamentale della storia americana.

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