Sbaglia Prodi, il partito di B. è un insieme di clan

10 Luglio 2020

Anche a voler pensar male, Romano Prodi non è sospettabile d’intendenza col “nemico” che sconfisse due volte. Fatelo pure più spregiudicato e calcolatore di quanto appaia, ma dispone di antenne sufficienti per sapere che Silvio Berlusconi mai e poi mai lo appoggerebbe nella corsa per il Quirinale. Che gli è preclusa da un’ostilità accanita della destra e dalla diffidenza già dimostratagli dalla palude renziana e dalemiana.

Non è di ieri, peraltro, la sua proposta di un governo sostenuto da una “coalizione Orsola” d’impronta europeista, formata dai partiti italiani che a Strasburgo votarono Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue: dal M5S a Forza Italia. Fu un’idea che mise subito per iscritto l’agosto scorso, non appena entrò in crisi l’alleanza fra grillini e leghisti.

Riconosciuta la coerenza che gli spetta, resta da chiedersi se davvero un governo Conte rimpastato o comunque sorretto dai voti di Berlusconi potrebbe funzionare e fare il bene dell’Italia. Come sostenuto da tutti i principali giornali e dalle forze economiche che ne ispirano l’indirizzo politico.

La storia dei governi di unità nazionale sperimentati in Italia suggerisce il contrario: durano poco, finiscono per incentivare nuovi aspri conflitti politici anziché sedarli, e soprattutto si rivelano inadeguati ad affrontare le emergenze che ne avevano motivata la nascita.

Vediamo. Nell’immediato dopoguerra l’unità nazionale si frantumò in tre brevi governi, uno guidato da Parri e due da De Gasperi. Il partito comunista ne fu estromesso nel maggio 1947, il che non impedì alla fine di quell’anno il varo della Costituzione. I governi Andreotti di compromesso storico, fondati sulla non sfiducia e sull’appoggio esterno del Pci, durarono meno di tre anni, dall’agosto 1976 al marzo 1979, e aprirono la strada a un infelice ciclo economico che penalizzò i redditi da lavoro e ingigantì il debito pubblico. Infine, nel 2013, dopo soli nove mesi Forza Italia ritirò il suo appoggio al governo Letta, favorendo l’avvio della stagione renziana. Perfino il non scritto ed extraparlamentare Patto del Nazareno si infranse, e in seguito Berlusconi trovò conveniente accodarsi al traino leghista.

Prodi ora sostiene che l’ingresso di Forza Italia nella maggioranza non produrrebbe esiti traumatici perché la vecchiaia ha reso più saggio Berlusconi. Anche se non lo dice, probabilmente calcola anche che il suo partito – attualmente dotato di buoni numeri in parlamento – va incontro a un inesorabile declino. E dunque il Cavaliere avrebbe convenienza a far pesare oggi i voti di cui non disporrà più domani. Può darsi. Ma credo che il ragionamento di Prodi non faccia i conti con la natura del residuo notabilato di destra da cui è composta Forza Italia: un insieme di clan locali, votati all’autoperpetuazione, fedeli al capo solo fin tanto che Berlusconi sia in grado di garantirgli una candidatura sicura. E rimasti del tutto estranei alla cultura liberalconservatrice del Partito popolare europeo.

Con questa materia prima, è impensabile replicare in Italia l’esperienza della grosse koalition di marca tedesca. Fondata su un programma articolato, stipulato fra due forze politiche di lunga tradizione, e ciò non di meno ormai da tempo entrata in crisi. Tanto che sembra del tutto improbabile che la grosse koalition germanica sopravviva alle prossime elezioni del 2021.

I residui di Forza Italia sono animati da un istinto che li trascinerà inevitabilmente a destra. E, nel dopo Berlusconi, dubito assai che si fidino a lasciarsi guidare da Renzi.

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