Bonafede-Di Matteo, i punti che deve chiarire il ministro della Giustizia

8 Maggio 2020

Già nel dicembre del 2018 avevamo scritto che Bonafede “non ha spiegato perché – dopo aver fatto balenare la sua nomina – non abbia scelto Antonino Di Matteo come capo del Dap. Alcuni boss al 41-bis avevano fatto sapere di non gradire il pm della Trattativa. Bonafede però non li ha irritati”. La risposta a quella domanda arriva due anni dopo, con tempi e modi sbagliati da entrambe le parti. A questo punto il magistrato e il ministro dovrebbero chiarire nella sede giusta: la Commissione Antimafia. Bonafede potrà spiegare cosa accadde tra la sua prima telefonata del 18 giugno 2018, quando propose a Di Matteo il Dap o la Direzione Affari penali (“scelga lei”) e l’incontro del 19 quando cercò di convincerlo a prendere gli Affari penali. A Massimo Giletti ha detto: “A me era sembrato che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo”. Di Matteo non la pensa così. Comunque chiese un nuovo incontro e l’indomani, 20 giugno, comunicò di volere il Dap. Purtroppo già offerto al pm Francesco Basentini. Cos’è successo in quelle 48 ore?

Bonafede poi potrà spiegare la frase (riferita da Di Matteo a Repubblica) detta nell’ultimo incontro del 20 giugno 2018. Il ministro disse davvero “non c’è dissenso o gradimento che tenga”? Bonafede giura che non ci sono state pressioni istituzionali su di lui. Inoltre ricorda che le parole dei mafiosi erano note a entrambi prima della duplice proposta e quindi non hanno influenzato la sua scelta. Tutto ciò, però, non toglie che il trattamento riservato a Di Matteo da Bonafede sia stato offensivo. Non si tratta così un magistrato minacciato da Riina, che rischia la vita per lo Stato. Soprattutto perché il M5S ha lasciato intendere (a Di Matteo e non solo) altri scenari. La storia inizia con Luigi Di Maio che in privato gli promette il ministero dell’Interno anche se in pubblico il nome sarà un altro (Paola Giannetakis) per non mettere Di Matteo in difficoltà.

Nessuno smentisce però Di Maio, che fa il governo con Salvini e Bonafede offre a Di Matteo, che non ha mai chiesto nulla, solo un posto che non c’è (la Direzione Affari penali è occupata da Donatella Donati) e un posto che svanisce quando Di Matteo lo accetta: il Dap.

I boss in cella si erano fatti intercettare mentre urlavano di non volere Di Matteo al Dap, ma Bonafede sottolinea che lo sapeva da giorni quando lo propose al pm. Resta il fatto che la nomina di Basentini il 27 giugno, proprio il giorno dell’uscita della prima pagina del Fatto sul veto dei boss, ha dato l’impressione di un cedimento alla mafia. I boss hanno esultato per quella prova di forza apparente. E hanno brindato ancora il 21 marzo 2020 quando il Dap ha fatto uscire una circolare urgente che rendeva più facile le scarcerazioni per il coronavirus dei boss malati o ultrasettantenni ai Tribunali di Sorveglianza.

I Tribunali hanno deciso da soli le scarcerazioni di 300 mafiosi, senza citare norme e circolari speciali, però talvolta sono stati aiutati dalla lentezza del Dap a fornire la prova che non rischiavano a restare in cella. Bonafede è responsabile politicamente degli errori del Dap. Anche perché chi ha votato il M5S immaginava che al Dap il ministro avrebbe portato Di Matteo, non il meno noto Basentini. Già allora, nel 2018, notavamo che Basentini è meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo: per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell’università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere.

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