L’intervista

“Questo virus è la Chernobyl della nostra globalizzazione”

Guido Maria Brera - Dopo il successo de “I Diavoli” diventato anche una serie tv, torna con “La fine del tempo”

2 Aprile 2020

Dopo il successo de I Diavoli, il finanziere Guido Maria Brera, ormai sempre più scrittore a tempo pieno (de I Diavoli partirà a breve la mini-serie tv su Sky) pubblica La fine del tempo, romanzo attorno ai grandi temi della crisi economica e delle ricette per uscirne. Protagonista, l’inglese Philip Wade, professore di Storia, laburista, ma con i sodali Massimo De Ruggiero e Dereck Morgan, al centro degli intrecci tra finanza e politica e della “guerra” che si svolge in campo internazionale almeno dal 1989.

Proprio perché parla di guerra, Philip Wade si lancia in una proposta estrema, la remissione dei debiti. È davvero fattibile?

La proposta ovviamente è di Philip Wade. Che la motiva in ragione della guerra che si è svolta dalla caduta del Muro. Un “tutti contro tutti” in cui gli Stati si sono ritirati e il capitale è stato messo nella condizione migliore per massimizzare i profitti. Chi non ha potuto partecipare a questa “danza” è andato in frantumi. Il virus oggi è solo la parte che noi vediamo della guerra in un mondo già diviso tra vincitori e vinti. Nel libro c’è l’eco dell’aspirazione di Keynes che ne Le conseguenze economiche della pace parlava già di ammorbidire il peso del debito della Germania. Wade propone qualcosa di simile: dopo una guerra, i debiti venivano ridiscussi.

Siamo stati abituati al refrain che il debito è sacro.

Sì, il debito è sacro. Però ci sono dei momenti in cui è necessario aprire un dibattito. È la Storia che viene a bussare e dice che è ora di ridiscuterlo. La sua sacralità è un’architrave della finanza ed è una misura costituente che serve a creare spesa sociale. Il fatto che sia ripagato è importante a meno che la Storia non bussi alla tua porta. Nel libro, Wade, identifica gli ultimi trent’anni come una guerra e questa pandemia avrà i risultati di una guerra: ridiscutere i debiti privati deve essere materia di dibattito.

Nel libro si torna spesso a discutere del Quantitative easing definito come “una enorme glaciazione” della piramide sociale. È stato negativo?

È stato necessario, ma non sufficiente. Se hai un malato che ha bisogno del cortisone glielo dai e poi curi la malattia. Senza Qe si sarebbe tornati al baratto. Ma poi, la politica si è nascosta dietro al Qe senza adottare le politiche fiscali necessarie. La politica avrebbe dovuto approfittare di quel tempo in più regalato dalle Banche centrali per andare alla radice.

Lo spazio, invece, se lo è preso il capitale, i cui flussi vengono descritti come i mostri di Bacon. Il tasso zero ha alimentato la tecno-finanza, è il lamento di Wade.

Il capitale è un algoritmo e quindi risponde a leggi matematiche. Se i tassi zero aiutano un salto tecnologico reale, allora va bene. Ma se vengono sfruttati per creare tecnologia che comprime i diritti, come la Gig economy, quindi distruggendo il tessuto sociale, allora non servono a nulla. I bambini devono sognare il pallone e corrervi dietro, non devono sognare un brand. La colpa, ripeto, non è del Quantitative easing, ma della politica.

Philip Wade ha in comune con Mario Draghi di essere discepolo di Federico Caffè. Ci salverà Draghi?

Credo che siamo noi a dover mettere lui nella condizione di salvarci. Draghi è la persona più illuminata in Europa degli ultimi vent’anni. Il suo articolo sul Financial Times è stato importante, arrivando a prefigurare persino la cancellazione dei debiti privati. Mi ricorda il direttore dei programmi di emergenza dell’Oms, Mike Ryan, secondo il quale If you want to be right before you move you never win. La perfezione è nemica del bene, pensiero anche di Voltaire. Draghi ha fatto un gesto forte, ed è stato l’unica voce politica dell’ultimo mese.

Siamo cresciuti nell’era imperante del neoliberismo iniziato negli anni Ottanta. È finita quella stagione?

Sì, questo virus è la Chernobyl della globalizzazione. Ci sarà un prima e un dopo. Il neoliberismo, cioè l’affidare al singolo la propria sorte, è drammaticamente imploso. La nostra generazione non aveva mai conosciuto l’importanza e la centralità dello Stato per la propria vita. E se pensiamo all’affermazione di Margareth Thacher secondo la quale non esiste la società, ma solo gli individui, ci rendiamo conto come questa crisi ponga una pietra tombale su quella concezione.

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