L’intesa

Coronavirus, con l’aggiornamento del decreto cambiano le attività essenziali, ma solo 200mila lavoratori in meno

Sindacati-governo. Ritoccati ancora i codici delle attività e previsto un più ampio coinvolgimento di Cgil, Cisl e Uil. Ma 9 milioni restano ancora in attività

26 Marzo 2020

Dopo una trattativa durata un giorno e mezzo, con pausa notturna, Cgil, Cisl e Uil hanno ottenuto che l’elenco delle attività produttive considerate essenziali e indispensabili fosse rivisto. L’intesa è stata raggiunta ieri nel corso del confronto tra i ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri, e dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. L’intesa non ha fatto in tempo a bloccare gli scioperi proclamati in Lombardia nel settore metalmeccanico e chimico che hanno avuto, secondo i sindacati, una discreta partecipazione.

“È stato fatto un grande lavoro comune – dicono in una nota comune Cgil, Cisl e Uil –, abbiamo rivisitato l’elenco delle attività produttive indispensabili, in modo da garantire la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici. È stato tolto dall’elenco tutto ciò che non era essenziale, visto il momento difficile che stiamo vivendo”. Al di là della lista dei lavori, che vedremo più avanti, i sindacati insistono sull’importanza dei dispositivi di protezione individuali e sull’adozione rigorosa del “Protocollo sulla sicurezza”.

Cgil, Cisl e Uil hanno insistito soprattutto sul loro coinvolgimento nell’autorizzare le possibile deroghe a livello locale per aziende che dichiarino di essere essenziali alle filiere autorizzate. Un punto importante perché costituiva una maglia troppo larga del decreto. E così “i prefetti dovranno coinvolgere le organizzazioni territoriali per la autocertificazione delle attività delle imprese che svolgono attività funzionali ad assicurare la continuità delle filiere essenziali”. Inoltre, il ministro delle Difesa si è impegnato a diminuire la produzione nel settore militare, “salvaguardando solo le attività indispensabili”.

Scorrendo però l’elenco delle attività consentite, suddivise secondo i codici Ateco, diffuso al termine del confronto, non sembra che ci siano modifiche sostanziali. Non esistono cifre ufficiali e quindi ancora una volta abbiamo dovuto ricorrere ai nostri mezzi. Alla fine si tratta di circa 200 mila unità lavorative in meno. Dal sindacato si fa ufficiosamente la cifra di 250 mila, ma oltre al taglio di alcuni settori si è ritenuto indispensabile aggiungere attività che invece erano rimaste fuori. Come gli imballaggi o la costruzione di batterie o, ancora, la produzione di vetro cavo. Queste categorie hanno determinato un aumento di circa 51 mila unità al lavoro.

Sono stati invece eliminati diversi codici Ateco che cumulano complessivamente 228mila unità. Tra queste i cartotecnici, i produttori di esplosivi, alcune tipologie di prodotti per ufficio e materie plastiche, il settore aerospaziale, alcune tipologie di ingegneri civili. A questi vanno aggiunti una parte degli oltre 50 mila addetti ai call center operanti in attività in uscita (outbound) o per servizi telefonici a carattere ricreativo. I call center in entrata (inbound) possono operare se collegati alle attività del Dpcm 11 marzo che ha bloccato le attività.

Si arriva così ai 250 mila ammessi anche dal sindacato su un totale, prendendo a riferimento i codici Ateco approvati, che passa da 9 milioni a 8,8 milioni (ma alcune stime sindacali parlano di 11-12 milioni di lavoratori in attività).

Secondo i calcoli di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Claudio Sabattini, le ore lavorate necessarie a mandare avanti le attività fondamentali in Italia oggi corrispondono al 31,8% del totale, mentre quelle attivate dal governo sono il 46,5%. Ci sarebbero quindi almeno 4,5 milioni di lavoratori in più di quelli necessari.

Le modifiche non trovano ostilità da parte di Confindustria, che in una nota afferma che “pur non condividendo gli interventi che oggi (ieri, ndr) hanno rimesso in discussione provvedimenti già molto restrittivi” si dice disposta a “mettere da parte polemiche, strumentalizzazioni ed eccessi nel linguaggio” (soprattutto quelli contro la stessa associazione confindustriale). Quello che interessa agli industriali è che “bisogna fare in modo che dopo la chiusura temporanea e il rallentamento della produzione non ci sia una chiusura definitiva”.

Obiettivi: assicurare alle imprese un rapido e semplice accesso alla cassa integrazione, sostenerne la liquidità prevedendo la dilazione delle scadenze fiscali e contributive e agire inoltre sulle linee di credito a breve e lunga scadenza.

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