Vita e morte in Lombardia. “Ho perso papà ma niente tampone: e se ho il virus?”

23 Marzo 2020

Cara Selvaggia, mio papà si chiamava Siro, era nato il 7 Aprile 1955 a Torre De’ Roveri, un piccolo paese a pochi km dalla città di Bergamo. 37 anni fa, per lavoro in provincia di La Spezia e dopo vari spostamenti, s’innamora del monte Rocchetta e lì compra un rustico ristrutturandolo. Chiamava quella casa “il mio posto nel mondo”, isolato, su strada sterrata, con i cinghiali che passeggiavano in giardino e un enorme orto a cui si dedicava con tanto amore, con la Versilia che si vedeva dalla terrazza. Buon cuore, con la battuta sempre pronta, era diventato amico di tutti a Lerici: non si poteva passeggiare con lui senza che ci si fermasse ogni tre passi a salutare qualcuno che era felice di vederlo. Nel 2005 si ammala di un tumore al fegato, gli danno 3 mesi di vita. Ma dopo 6 mesi è ancora in piedi per noi, le sue donne, le tre figlie e la moglie. Dopo il trapianto, con qualche acciacco, la sua vita riprende a pieno. Preferisce comunque rimanere in cima alla sua adorata Rocchetta, rientrando a Bergamo solo per i weekend in famiglia.

Tutto questo fino al 22 Febbraio 2020, quando, per un dolore e gonfiore al piede si reca al pronto soccorso di Seriate, assieme a mia mamma. Per la sua “paura di dare fastidio” non dichiara di essere immunodepresso. Dopo un paio d’ore nella sala d’attesa gli viene diagnosticata una semplice infezione curata in pochi giorni. Il 2 di marzo scende a Lerici con il treno Bergamo–Pisa Centrale delle 6.40. Ha un po’ di tosse, ma avendo preso freddo non gli dà peso. Durante la settimana la tosse peggiora, il respiro è affannato e allora il 6 marzo, con 7 kg in meno e la febbre a 37.8, andiamo a prenderlo e lo riportiamo a casa. Telefonando al 1500 (numero di pubblica utilità per il Covid -19) mi danno solo dei consigli, la guardia medica non risponde, cade la linea. Al numero verde per la Lombardia mi consigliano di contattare subito il 112 e dopo un’ora e 7 minuti di attesa parlo con chi di dovere: prendono dati e sintomatologia del paziente, mi chiedono se è stato a contatto con contagiati da Covid, riferisco di no, ma segnalo che è stato in treno e in pronto soccorso proprio la giornata dello “scoppio” di ciò che oggi è una pandemia.

Mi viene detto “ti richiamerà un infermiere che valutata la tua casistica vedrà se è opportuno fare uscire un’ambulanza”. Dopo mezz’ora arriva la chiamata, l’infermiere sconsiglia l’intervento dell’ambulanza. Io insisto perchè conosco papà, è uno che se l’è vista brutta, ha la pellaccia e non si è mai lamentato. Se si è lasciato strappare dal suo paradiso terrestre per una “tosse” significa che è grave.

A mezzanotte arriva un’ambulanza, i volontari prendono qualche parametro e sconsigliano di portarlo all’ospedale perché “se non è Coronavirus, lo prende lì e ci lascia le penne”. Non potendo prescrivermi nulla, chiamiamo la guardia medica che, finalmente, risponde. Ci dice che è normale avere questi sintomi se lui da lunedì ha febbre e tosse e non prende niente per curarla: mi spediscono in farmacia a prendere un sedativo per la tosse e la tachipirina. La situazione non migliora, passiamo nottate di inferno, ogni colpo di tosse ti senti mancare il respiro insieme a lui, sembra stia affogando ogni volta. Domenica nella disperazione vado dalla guardia medica a chiedere aiuto. Trovo un dottore che dice “c’è un po’ di acqua nei polmoni” e, vista l’immunodepressione, consiglia a mio padre di fare l’aerosol. Questa “visita medica” non mi tranquillizza. Lunedì alle 8,30 apre l’ambulatorio medico del nostro dottore e io sono lì: munita di mascherina e guanti spiego in lacrime la situazione e i sintomi al medico. Riferisco che anche io ho qualche linea di febbre e che non posso andare a lavoro essendo espostissima (infopoint del centro commerciale di Orio al Serio). Ottengo qualcosa, dei farmaci. Papà sembra stare meglio! Non ha più febbre, mercoledì viene il medico di base di sua iniziativa a trovarci, lo trova in forma, io smetto di piangere, lui ci dice che sembra essere una polmonite batterica e non virale, papà si gode la partita della sua amata Atalanta e la vede trionfare, si beve addirittura una birra. Giovedì sembra tutto ok, la sera addirittura si mangia tre piatti di minestra: questo è il mio vecchio, ora lo riconosco. Mia mamma intanto ha una febbriciattola ballerina. Venerdì 13, alle 19.00, papà mostra segni di affanno, rantola, si lamenta. Inizio a chiamare: guardia medica non risponde, “utente occupato” per quasi 10 volte in diversi momenti; vado col 112, sale il panico, non riesce a respirare, fa fatica, la saturazione è a 70. Chiamiamo delle amiche infermiere, ci aiutano a spostarlo, una si attiva e va a cercare dell’ossigeno: la prima farmacia dove trovarlo è a 40 km da qui. Passano altri minuti, mio papà muore.

Ora siamo qui, con la salma di mio padre che, dopo aver manifestato ogni sintomo del Coronavirus, non c’è più. Il suo corpo è in una bara non areata in sala, rimarrà qui tutto il weekend, le pompe funebri sono oberate di lavoro. Non possiamo ricevere nessuno, commemorarlo come si merita, non ha avuto le cure che si meritava. Siamo io, mia mamma Judit, mia sorella Viktoria, mio cognato Giovanni, i miei nipoti Siro e Angelica. Non sappiamo se siamo positivi al Coronavirus o no. Ci siamo messi in auto-quarantena perché abbiamo buonsenso: vorremmo che nessun altro soffrisse come noi e soprattutto come mio papà. Ma di ufficiale non c’è nulla: sottopongono calciatori, politici, uomini di spettacolo asintomatici al tampone, mentre noi siamo qui, da due settimane abbandonati a noi stessi. Siamo, con ogni probabilità, un potenziale attentato alla sicurezza pubblica anche se usciamo a fare la spesa. Questo non interessa a nessuno. Di mio padre non è interessato a nessuno.
Asia

Cara Asia, così si muore e si vive in Lombardia, in questi tempi bui.

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