Abbandonati

Coronavirus, per gli “schiavi” nei campi non esistono regole e protezioni

L’allarme dei sindacati: “I lavoratori, per lo più africani, vivono ammassati nelle tende, senza acqua nè mascherine. E vengono portati coi bus”

23 Marzo 2020

Non può restare a casa chi una casa non ce l’ha, ma abita in una tenda. Non può lavarsi spesso le mani chi non ha sempre a disposizione acqua corrente. Non può evitare assembramenti chi ogni mattina prende un pullman affollato per andare a lavorare nelle campagne. Difendere dal Coronavirus i braccianti agricoli è una missione molto difficile. Soprattutto per gli africani che vivono nei ghetti nei quali l’emergenza igienico-sanitaria è perenne.

La precauzione che in questo momento si cerca di adoperare nei luoghi di lavoro sembra non valere per chi è impegnato nelle raccolte. Le storie che racconta chi vive queste realtà lo confermano. “Di questo – spiega Giovanni Mininni, segretario della Flai Cgil – ci informano i nostri delegati che dormono nella fabbrica occupata di Foggia, nel ghetto di Rignano o a Borgo Mezzanone”. Si sta ammassati, mancano mascherine e strumenti di protezione, gli alloggi sono fatiscenti e non permettono di seguire le indicazioni delle autorità. Uno scenario simile alla provincia di Reggio Calabria: “A San Ferdinando – prosegue Mininni – sono in una tendopoli, e non ci sembra il luogo adatto per affrontare un’eventuale quarantena”. In questi giorni, i supermercati sono presi d’assalto dalle persone che svuotano interi scaffali per fare provviste settimanali, anche i banchi di frutta e verdura: nei terreni, raccontano i sindacati, l’attività si è intensificata. Un settore da sempre esposto a sfruttamento e illegalità, a maggior ragione in una situazione del genere, è meno controllabile. Secondo la Flai, quindi, il rischio è dimenticare un mondo che proprio in questi giorni avrebbe visto una spinta alla lotta contro il caporalato, che il governo ha messo in testa all’agenda con l’approvazione di un piano triennale. Ora c’è bisogno di un’accelerata nella messa in pratica delle misure previste dall’intesa, che partono da un’accoglienza dignitosa per questi lavoratori. “I prefetti – ha detto Jean-René Bilongo, coordinatore dell’osservatorio Placido Rizzotto – requisiscano caserme dismesse o strutture simili per poterli ospitare, disponendo contemporaneamente piani di monitoraggio da parte delle aziende sanitarie”. Già due anni fa, l’allora prefetto di Foggia Iolanda Rolli (poi spostata altrove da Matteo Salvini) aveva individuato strutture disponibili. Oggi il problema si ripropone con ancora più urgenza. Il protocollo per il contenimento del contagio sui luoghi di lavoro firmato con il governo da sindacati e Confindustria non ha visto la partecipazione delle associazioni di imprese agricole. In queste ore si sta cercando di definire un accordo nel settore. Anche perché, oltre alle ragioni umanitarie che basterebbero da sole, c’è anche un interesse collettivo: in alcune zone del Paese, scarseggiano gli stagionali bulgari e rumeni, perché sono soliti tornare nelle loro nazioni durante i periodi di inattività e ora sono rimasti bloccati. Gli africani, invece, restano in Italia e si spostano da una regione all’altra. Con il loro impegno sono loro a garantire l’approvvigionamento di frutta e ortaggi nelle nostre case. Se i campi dovessero diventare focolai, l’effetto sarebbe devastante.

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