Il reportage

Bergamo, con le ambulanze che portano via i morti

Nel focolaio di Alzano Lombardo - Tra gli angeli della Croce rossa: “È peggio lasciare un anziano in reparto senza che i familiari possano andarlo a trovare”

20 Marzo 2020

“Hai visto? Hai visto?”, gli dice sua moglie, con lo sguardo che dopo 11 giorni, infine, torna a brillarle, “Vai in ospedale! Sei contento?”, gli dice, e Antonio Amato, 40 anni, si gira appena, sul divano in soggiorno: e stringe stretto la sua bombola d’ossigeno. Chiamavi il 118, un tempo, e speravi che il medico arrivasse, e ti dicesse che non era niente di speciale. E ti lasciasse a casa. Ora ti ricoverano d’urgenza, e ti senti come se avessi vinto un terno al lotto: hai trovato un posto in terapia intensiva.

I due figli, due bambini, in isolamento nella loro cameretta, escono, in pigiama. Fanno ciao dalla soglia della stanza. Sulla bocca, per mascherina, un peluche.

Ad Alzano Lombardo, la zona più rossa di un’Italia in quarantena in cui mentre scrivo, si contano 31.506 contagiati e 2.503 morti, le ambulanze non usano più la sirena, ma i lampeggianti: per evitare il panico. Le strade, tanto, sono deserte. Gli unici che incroci sono i furgoncini delle pompe funebri. Siamo vicino Bergamo, in una regione di 10 milioni di abitanti in cui secondo l’assessore al Welfare, la sera, negli ospedali, tra i nuovi arrivi e i dimessi, diretti a casa o in cimitero, in terapia intensiva restano non più di una ventina di letti liberi. Ma qui, dove tutto è cominciato, e siamo due settimane avanti rispetto al resto del paese, e dell’Europa, non sono finiti solo i letti: è agli sgoccioli anche l’ossigeno. Durante il suo ultimo turno di notte, il farmacista Andrea Raciti ha avuto 42 richieste. E non gli era rimasta neppure una bombola.

Per chi sta a casa, la cura è la tachipirina. E molta fortuna.

Sulle ambulanze della Croce Rossa, le mascherine oggi sono quelle recuperate dalla madre dentista del più giovane dei volontari, Sergio Solivani, 21 anni. Studente di filosofia. Una facoltà che torna quanto mai utile, in questo momento: perché la scelta non è come intervenire, ma prima di tutto, se intervenire. Non è più solo questione di medicina, ormai, ma di morale. “Soprattutto con i più anziani”, dice. Che tra l’altro, statisticamente, come è noto, sono i più e più ferocemente colpiti. “Spesso ricoverarli è peggio. Perché poi in ospedale, ora che le visite sono vietate, restano soli. In mezzo a degli sconosciuti”, dice. “Una volta abbiamo riflettuto a lungo, insieme alla Centrale, ai medici, e alla fine, abbiamo deciso il trasporto in ospedale. Due giorni dopo, ho letto il nome della signora tra i necrologi. Che significa che è morta subito. Magari mentre era ancora in fila per l’accettazione. E ho pensato: Chissà se avrà avuto almeno un bicchiere d’acqua”.

“Non un po’ d’ossigeno”, dice. “Solo un po’ d’acqua”. E abbassa lo sguardo.

E poi: restano soli, ma anche, magari, lasciano soli. “C’era questa signora fragilissima, ieri. Tutta ossa. Avevano una badante: ma era a casa sua con la febbre. E il marito è rimasto lì, sulla porta. Frastornato. Un uomo quasi cieco. Chiaramente non autonomo. E ci siamo detti: E lui, ora? Qui salvi uno, e rovini l’altro”.

Perché non tutti hanno un figlio vicino, come invece Teresina Varesi, 87 anni e difficoltà a respirare. E febbre, sembra. E dolori al torace. Ma non è semplice capire cosa ha, perché non è abbastanza lucida da spiegarsi, spiega Lujan, la badante sudamericana che si occupa di lei, e della casa, in modo impeccabile, e sta qui, in trincea, armata di guanti e candeggina, anche se ha paura: Ma come posso andare via?, dice – giù in Bolivia, vivono del suo stipendio: e disinfetta subito anche la penna con cui mi appunto un attimo il suo nome. Il figlio, intanto, aiuta l’equipaggio della Croce Rossa ad adagiarla sul letto senza che si rompa, per quanto è minuta. E come tutti i figli, non si arrende: e mentre lei sta lì, nella penombra della sua stanza, sotto un’icona della Madonna, a cercare aria, così raggomitolata su di sé che si distingue a stento dalle coperte, come un fagotto di stracci, dice: Magari è un colpo di freddo – anche se non esce di casa da una vita. E dice no al ricovero. Ma d’altra parte: l’ospedale più vicino sarebbe il Niguarda. A Milano.

Alla fine, giù in strada, uno alla volta, ci srotoliamo via di dosso la tuta bianca. E poi i guanti. La mascherina. E disinfettiamo tutto, centimetro a centimetro – l’ultimo aiutato dal primo, che poi si cambia di nuovo i guanti: perché è una specie di domino, qui. Come ti disinfetti davvero, quando ormai è infetto anche il tappo del disinfettante?

Da dietro le finestre, gli altri inquilini ci fissano spauriti. Chi sarà il prossimo?

A Alzano Lombardo, a ogni starnuto hai un attacco d’ansia. Perché poi, nessuno sa ancora con esattezza quali siano i sintomi di questo virus che qui è ovunque. E quindi, a ogni starnuto ti chiedi se sia l’inizio. Se sia arrivato infine il tuo turno. Ti svegli, la mattina, ed è la prima cosa che controlli: respiro ancora regolarmente?

Poi deglutisci, controlli la gola.

Poi inclini la testa. A destra, poi a sinistra. E controlli le orecchie.

E poi fai un altro respiro. Il più profondo possibile. E controlli di nuovo.

Respiro ancora? Sicuri?

Dall’esame delle celle telefoniche è emerso che persino in Lombardia, persino nell’epicentro della crisi, il 40 percento degli italiani continua a violare la quarantena, e spostarsi. Molti, ancora, continuano a dire che in fondo, i morti erano già molto anziani. O comunque, con altre patologie. E che quindi, in realtà, sono morti d’altro. Ma in un certo senso, è l’opposto: ora anche chi muore d’altro, in realtà, muore di Covid-19. Muore di collasso del sistema sanitario. Romano Lugli ha 89 anni, ed è scivolato in corridoio. La figlia, figlia unica e senza figli, convalescente di un tumore al fegato, è allo stremo. Non c’è modo di avere assistenza a domicilio, in questi giorni, ha chiesto ovunque, e mentre spera che sia ricoverato, che si trovi un letto libero, gira nervosa in soggiorno, e mi domanda: “Sbaglio?, che dici, Sbaglio? O è meglio così? Che dici?” – perché con la tuta bianca, siamo tutti uguali: e non si ricorda che io sono solo la giornalista. Tentiamo di dirle che suo padre è sano, a parte l’età. E la contusione. E che in ospedale, invece, si ammalerà. Ma è sfinita, e stravolta, ha chiamato il 118 alle 19.50 e siamo arrivati alle 22.30, è fragile, e sola, in lacrime, “Che dici? Sbaglio?”, ripete, “Che dici?”, e di istinto, uno di noi fa per abbracciarla: prima di ritrarsi, e dire: Scusi, scusi non posso – e restare lì, con le braccia a mezz’aria: a un metro di distanza. E quando il padre è ormai sul pianerottolo, tutto agganciato a una sedia a rotelle, è il momento di dirle che da ora, però, non potrà più vederlo: perché nelle sue condizioni, appena operata, il virus sarebbe letale. “Forse… Cioè, magari… Ha dimenticato niente?”, farfuglia uno di noi, cercando le parole migliori – o almeno, le meno peggiori. “Ha un’ultima cosa da dirgli?”, dice. E lei si accorge che non sa dove sia il tesserino sanitario. “Dov’è? Papà! il tesserino sanitario, dov’è? Papà! Tu e il tuo disordine!”, gli dice, rovistando nei cassetti. E nessuno ha il coraggio di dirle che un giorno, probabilmente, ricorderà che questo è tutto quello che ha detto a suo padre, l’ultima volta che gli ha parlato.

Dov’è il tesserino sanitario?

E ci aspetta per 35 minuti, un’eternità, per un codice rosso, anche Andrea Travelli, che ha 60 anni e febbre alta da una settimana. In casa non c’è che tachipirina. “E la febbre non scende, è inutile”, dice il genero, una parola alla volta perché la voce non gli si spezzi. Perché poi, tra i personaggi famosi ora chi ha il virus si precipita a comunicarlo via Facebook, con questi video in cui sembra sia solo un po’ di tosse, solo questione di un po’ di latte e miele: “e invece avere un malato in casa è un’agonia”, dice, “un’agonia per tutti”. E infatti la notte, adesso che le ambulanze hanno le sirene spente, che è tornato il silenzio, a volte senti la concitazione di una famiglia che si sveglia, e nel buio, vedi le luci accendersi, una dopo l’altra: è un figlio, un fratello in crisi respiratoria. Ed è il panico. Perché poi, non una, ma mille volte, viene il momento più difficile: il momento di scegliere. “Ed è difficile per noi per primi”, dice Samantha Cortesi, in Croce Rossa da vent’anni su 45. “Eravamo abituati a stabilizzare e basta. Ad arrivare, e veloci, correre in ospedale. Mentre ora, siamo qui a decidere se andarci o meno. E a decidere in pochi minuti”, dice, prima di tirare fuori tutta la delicatezza possibile, e spiegare alle figlie di Andrea Travelli che in questo momento, per il padre un ospedale sarebbe ancora più pericoloso di questa casa in cui c’è solo tachipirina. “Resisterà. Resisterà”, prova a rassicurarle. “In fondo, quando non tossisce respira”.

“In circostanze normali, con casi così non avremmo avuto il minimo dubbio. E avremmo ricoverato d’urgenza”, dice Nadia Vallati, che a 41 anni, è un’altra delle veterane della Croce Rossa. “Ma ora, per quanto sia drammatico, e ci stia segnando tutti per sempre, abbiamo l’obbligo di dirlo: Probabilmente rivedrete il vostro familiare solo da morto”.

“Anzi. Ora sono sospesi anche i funerali. Neppure da morto”.

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