Fondo salva-Stati, quell’ossessione per il deficit che ha isolato l’Italia in Europa

25 Novembre 2019

C’è un grande complotto per usare il fondo Salva Stati europeo per mandare in bancarotta l’Italia e saccheggiare le sue residue ricchezze? No, anche se a qualche sito anti-euro piace presentare le cose in questo modo. Ma intorno alla riforma del fondo Salva Stati (Mes) si consuma una battaglia culturale e politica decisiva per il destino dell’Unione europea e dell’Italia.

Senza il Mes, l’euro non esisterebbe più. Anche coloro che sognano un ritorno alle valute nazionali, concordano sul fatto che un’esplosione incontrollata dell’euro sarebbe una tragedia finanziaria e politica. Nel 2012 questa eventualità è stata scongiurata perché Mario Monti, allora premier, e Mario Draghi, alla Bce, hanno lavorato con Angela Merkel per costruire una risposta istituzionale che fugava ogni dubbio sulla determinazione a difendere la moneta unica: Monti e Merkel hanno creato le basi politiche perché il Mes potesse partecipare alle Omt, le operazioni di salvataggio degli Stati che ne fanno richiesta, Draghi ha schierato la Bce con risorse illimitate per finanziarle. Nessuno, sui mercati, può scommettere contro la Bce e vincere. La crisi dell’euro è finita così.

Da allora il Mes è diventata la base di partenza per costruire un nuovo assetto di governo dell’Unione, visto che risulta impossibile modificare i trattati per la parte che riguarda le istituzioni (Consiglio, Commissione, Parlamento). Molte delle cose di cui si discute da decenni, inclusi i famosi Eurobond (debito pubblico unico europeo), ora sono tecnicamente possibili grazie alla natura particolare del Mes, che è un fondo di diritto privato che risponde a direttive politiche dei governi che ne fanno parte (l’Italia ha versato 14 miliardi di capitale).

La riforma a lungo discussa – ma poco dai nostri politici – presenta indubbie criticità per l’Italia. La più seria sembra essere il fatto che nel momento in cui un Paese chiede l’intervento di sostegno, il Mes e la Commissione dovranno pronunciarsi sulla sostenibilità del suo debito pubblico, per evitare di prestare soldi a chi non li restituirà mai. Se questo dibattito trasmette l’impressione che il problema è la sostenibilità del debito italiano, i mercati si convinceranno in fretta che Commissione e Mes pensano già ora che l’Italia sarebbe esclusa da ogni salvataggio. E così la catastrofe si manifesterebbe ora, senza aspettare una effettiva richiesta di salvataggio. Viceversa, se il meccanismo di intervento fosse basato su regole precise e prevedibili, che valgono per l’Italia come la Germania, e semi-automatico, così’ da non trasformare la richiesta di aiuto in umiliazione, i mercati considererebbero la probabilità di un default meno probabile. E il costo del debito scenderà. Il pericolo resta anche nella attuale versione del trattato, dopo che è stata esclusa la previsione di una ristrutturazione automatica (default) in caso di richiesta di aiuti.

Il nuovo Mes deve servire anche per gestire le crisi bancarie, come garanzia dei fondi nazionali che assorbono le perdite residue dei grandi disastri nel credito, se non è sufficiente scaricarle su azionisti e obbligazionisti. I maligni dicono che si va in questa direzione ora che serve alla Germania, visto che diverse sue banche, a cominciare da Deutsche Bank, sembrano sempre sul filo della crisi. Anche se così fosse, comunque l’uso del fondo come ultima risorsa anti-crisi è un passo avanti nella gestione europea delle crisi bancarie, nonostante il principio del bail in (no ai salvataggi pubblici, devono pagare risparmiatori e azionisti) sia contestato da più parti, soprattutto in Italia.

Il governo Conte quindi cosa può fare? Non molto, ormai. Mettere il veto sul trattato isolerebbe Roma in Europa ma soprattutto indicherebbe ai mercati che il problema è proprio l’Italia. Passerebbe il messaggio che perfino il governo italiano teme di non avere un debito sostenibile e che quindi vuole espungere quella parte dal trattato. Ma si può sempre imparare dai propri errori per non ripeterli.

In questi anni governi di ogni colore, inclusi i due di Conte, hanno avuto un’unica priorità nelle interlocuzioni con l’Ue: ottenere flessibilità, cioè poter fare più deficit del dovuto senza procedura d’infrazione. In nome di questa esigenza hanno sacrificato tutti gli altri obiettivi, hanno speso tutto il capitale politico dell’Italia per aggirare i vincoli di bilancio, perdendo così potere negoziale sul resto, dai migranti ai grandi progetti di riforma, come questo del Mes. Purtroppo non ci sono molte alternative: un’Italia che tiene sotto controllo debito e deficit, possibilmente grazie alla crescita del Pil e non a tasse e tagli recessivi, può trattare alla pari con gli altri. Altrimenti tutte le energie dei nostri esecutivi saranno spese per strappare un decimale di deficit in più. Con il bel risultato di non riuscire a condizionare i negoziati cruciali e di legittimare le richieste di chi, come i tedeschi ma non solo, vuole costruire gabbie sempre più strette per impedire che il costo di un debito italiano fuori controllo venga scaricato sul resto dell’Eurozona.

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