Altro che domenica: la sconfitta in Umbria è nata vent’anni fa

30 Ottobre 2019

Se state nel centro di una piazza, è difficile vedere la città. Meglio su una torre molto alta. Meglio ancora in elicottero (per noi umani: Google maps). Per le elezioni in Umbria è la stessa cosa: si cercano col microscopio le crepe nelle tattiche recenti, i dettagli contingenti, mentre alzandosi un po’ sull’orizzonte si vedrebbe una storia lunga, che ha portato fin qui dove siamo finiti: leghisti e scontenti (e non vale solo per l’Umbria, anzi). Se ogni tanto si capisse (ma così, per passatempo) che la politica è soprattutto comprensione delle dinamiche sociali, delle curve che prendono le vite della gente, si spiegherebbe meglio la regione rossa, laboriosa e civilissima, che si butta nelle braccia del mangiatore di salsicce sovranista. “Dopo 50 anni!”, esultano da destra, manco avessero preso la Bastiglia.

L’aumento dell’affluenza ingrossa il vantaggio di Salvini e fa intuire che un po’ dei famosi astenuti che “bisogna riportare alla politica” ce li ha riportati lui. L’alleanza che lo contrastava era messa su in fretta e furia, il candidato un perdente perfetto (per contrastare la destra montante, un imprenditore moderatissimo, la solita solfa), senza contare i 5s in caduta libera e il governo della Regione che ne ha fatte più di Carlo in Francia, trattando (un classico) la Sanità come agenzia di collocamento per gli amici, e molti altri pasticci. Ce n’è abbastanza per disamorarsi, anche se per uno che abbia qualche anche vaga formazione “di sinistra” per votare Salvini ci vuole qualcosa di più.

E quel qualcosa di più è il cambiamento senza cambiamento. Dopo anni e anni di retorica su “gli operai non ci sono più” – brutti volgari, pussa via, noi vogliamo le start-up – i metalmeccanici di Terni sono ancora lì a farsi il culo. E quando andarono a Roma a protestare (ottobre 2014, con un governo Renzi scintillante post-europee e Alfano agli Interni) vennero manganellati duramente, come per dire chiaro e tondo che il modello di sviluppo era un altro. Il grande cioccolato è multinazionale, il tessuto di piccole e piccolissime aziende manifatturiere è fittissimo. La terra, l’agricoltura, quelle benedette eccellenze di olii e vini, scivola sempre più verso la Disneyland del turismo, dal mezzadro al Bed and Breakfast è un attimo.

L’imperativo categorico, a destra, a sinistra, ovunque in cielo e in terra, è sviluppo-sviluppo-sviluppo, e naturalmente questo cambia sentimenti, umori e composizioni sociali. Fino a un appiattimento di orizzonti e di desideri: è tutto un indistinto ceto medio spaventato di riscivolare indietro, scontento, incazzato, deluso.

Come si vede, a mettere insieme non gli ultimi sei mesi, ma gli ultimi dieci, vent’anni, quella cartina impressionante dell’Umbria che era tutta rossa e ora è tutta verde un po’ si spiega. Probabile che la faccenda sia ancora più strutturale (l’Emilia-Romagna sì, che sarà un test!), cioè che il sistema progressista, il modello di sviluppo delle regioni “rosse” abbia fatto quel che doveva fare, e che ora non serva più, ciao, tanti saluti. Bella e nobile, la tradizione contadina, ma il proprietario di B&B, temo, tenderà a preferire la flat tax alla pace nel mondo, e nelle città d’arte “il decoro”, nome nobile della guerra ai poveri, verrà prima di tutto il resto.

C’è insomma un “egoismo di necessità”, che certo non verrà scalfito dai famosi “valori” della sinistra, che, tra l’altro, trascolorano e impallidiscono giorno dopo giorno. Troppi pochi elettori, in Umbria, per fare veramente da test, troppe variabili contingenti dettate dall’emergenza. Ma il disegno su larga scala è abbastanza preciso: molti elettori passano dalla fase “non ti voto più” alla fase “ti voto contro”. Non è nemmeno politica, certe volte, ma un umore, un’onda, un sentimento, che viene da quello che si è seminato per anni, non negli ultimi mesi.

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