Turchia, il saluto militare a Erdogan? Calciatori manipolati dal solito patriottismo di circostanza

16 Ottobre 2019

Gentile redazione del Fatto, ieri ho visto i calciatori turchi salutare militarmente Erdogan. Mi sono venuti i brividi. Mi è sembrato di ritrovare le scene delle Olimpiadi di Berlino con Hitler.

Giacomo Parsio

Gentile Giacomo, il calcio nelle competizioni internazionali è legato strettamente alla politica, ma è soprattutto lo strumento di propaganda privilegiato dei regimi e delle dittature. Come fu per i Giochi di Berlino del 1936 dove le gare erano avvelenate da sfrenati nazionalismi. Hitler imparò e perfezionò la lezione di Mussolini, integrando l’organizzazione dello sport nel discorso politico del nazismo. In una fotografia che immortala il podio del salto in lungo, si vede il tedesco Luz Long (medaglia d’argento) che allunga il braccio nel saluto nazista, il giapponese Naoto Tajima (bronzo) che rimane impettito sull’attenti mentre il vincitore Jesse Owens fa il saluto militare. Proprio come i calciatori turchi in questi giorni.

Perché chiediamo che l’Uefa sanzioni la federazione turca del calcio e che la finale di Champions League, prevista l’anno prossimo ad Istanbul, venga spostata altrove? E perché, al contrario, consideriamo il gesto di Owens una coraggiosa sfida? Semplice: Owens rendeva omaggio alla bandiera degli Stati Uniti, al suo inno, i simboli cioè del Paese libero e democratico per antonomasia. Non solo: le sue quattro medaglie d’oro sono viste come una beffa per Hitler. Assai diverso il gesto dei turchi: rendono omaggio ai soldati del loro esercito. Per noi occidentali, un’operazione ignobile, criminale. Invasione di territori curdi, massacri, esodi. Per Ankara, invece, i curdi sono il “nemico”: fomenta sedizione, compie attentati, destabilizza. Il messaggio dominante della narrazione di Erdogan è in questa logica: “Dobbiamo creare una zona sicura”. Nel nord della Siria, dove trasferire le masse dei profughi accolti durante il conflitto siriano. Per separare le comunità curde e quelle turche, a cavallo del confine. “Siamo con il nostro Paese, anche nelle difficoltà”, spiega il milanista Calhanoglu. Non si rende conto d’essere stato manipolato dal patriottismo di circostanza. Quello che rende il calcio un simulacro di guerra. Di rivincite. Per esibire e affermare l’ordine sociale del Paese che si rappresenta. Con i piedi…

Leonardo Coen

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