Contro i cambi di casacca, basta un ‘recall’

27 Settembre 2019

La senatrice Silvia Vono, eletta nei 5 Stelle, ma passata a Italia Viva, e i 40 parlamentari Pd che, dopo essere approdati a Roma grazie ai voti degli elettori dem, hanno lasciato il partito per fondarne un altro, devono ringraziare il cielo di essere nati in Italia. Sì, perché se avessero fatto politica in California, nel Wisconsin o negli altri 18 Stati Usa che prevedono l’istituto del recall, i nostri allegri cambia-casacca ci avrebbero pensato non una, ma cento volte, prima di sfidare la volontà dei loro elettori. Ma non perché, come vorrebbe Luigi Di Maio, in quegli Stati sia in vigore il vincolo di mandato. A spingerli a una riflessione maggiore, più rispettosa del pensiero di chi aveva creduto in loro, sarebbe stato un rischio, o per meglio dire, una possibilità. Quella che le rispettive leggi costituzionali statali danno agli elettori di raccogliere firme per votare la revoca dagli incarichi. Nel Wisconsin la consultazione popolare può essere richiesta da un numero pari al 25 per cento dei voti espressi nell’ultima tornata elettorale per la carica di cui si vuole discutere la prosecuzione. Se entro dieci giorni dal deposito della petizione l’eletto non si dimette riparte la competizione tra diversi candidati. La soglia di firme alta e una norma che permette la raccolta solo dopo un anno di mandato, evita che il recall possa essere usato troppo facilmente da avversari politici interessati solo a rendere più difficile il lavoro di chi sta nelle istituzioni.

L’effettivo utilizzo del recall è insomma raro. Ma la sola esistenza di un istituto del genere (presente anche in Svizzera, in Lettonia, in parte dell’Argentina e in Colombia) ha degli importanti effetti. L’eletto sa di doversi comportare bene. Se la fa troppo grossa o le sue scelte suscitano disapprovazione, rischia. Ma se non si riescono a raccogliere le firme, o se dopo il voto scatta la riconferma, l’esisto del fallito recall basta per far capire che ai cittadini non importa granché della questione. Così nel 2012 nel Wisconsin gli elettori hanno confermato in carica con il 53 per cento dei voti il governatore repubblicano, Scott Walker, che un anno prima aveva approvato delle norme per ridurre il potere dei sindacati nel pubblico impiego e per imporre ai dipendenti dello Stato di spendere di più per le assicurazioni previdenziali e sanitarie. Nel 2003, invece, la California scelse grazie al recall come proprio governatore Arnold Schwarzenegger al posto dell’ormai impopolare democratico Gray Davis. Ecco allora perché, secondo noi, invece che pensare all’abolizione del vincolo di mandato (cosa che a questa rubrica non piace per nulla), la strada da seguire è quella di dar voce ai cittadini. In nome – attenzione – non della democrazia diretta, ma di quella rappresentativa. Perché nessuna persona onesta può sostenere che un Parlamento in cui, nella passata legislatura, 208 deputati e 140 senatori hanno cambiato gruppo (spesso più volte), sia rispettoso del mandato popolare. Ieri, del resto, anche il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, ha fatto sapere di aver ben presente il problema. “Siamo anche noi contro il trasformismo”, ha detto Delrio, “ma lo si combatte con altri strumenti, non introducendo il vincolo di mandato, che altera la nostra Costituzione”. Bene, visto che nei prossimi mesi la Costituzione dovrà essere comunque cambiata alla luce dell’imminente taglio dei parlamentari, c’è l’occasione per introdurre la possibilità di revoca. Una legge che non cambia lo spirito della Carta, ma che invece lo preserva da chi coi suoi comportamenti continua a infangarlo.

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