La crisi

Conte in campagna: “M5S e Lega? Sarebbe sindrome di Stoccolma”

Dopo le dimissioni - I primi giorni da ex premier. La fine dei gialloverdi, l’ipotesi bis e la telefonata di Prodi: “Serve la coalizione Ursula”

23 Agosto 2019

Da due giorni è in ritiro, in campagna non troppo lontano da Roma, con i familiari. Si è “ripreso tempo per i suoi affetti”. Osserva a debita distanza quello che accade al Quirinale. E riceve segnali, tanti, ma non tutti sono affettuosi come quello che gli ha riservato il presidente Sergio Mattarella nel giorno delle sue dimissioni. Perché Giuseppe Conte ha fatto una scelta, quella di chiudere definitivamente l’esperienza gialloverde. E non è stata gradita fino in fondo da tutti, nemmeno tra chi l’ha applaudito dopo il suo discorso al Senato.

“Parole troppe dure”, le ha insolitamente bollate uno dei suoi ministri, il placido Enzo Moavero Milanesi, l’altroieri al meeting di Comunione e Liberazione. In effetti, l’affondo di Conte contro Matteo Salvini è stato impietoso – il “più duro degli ultimi trent’anni in Parlamento”, gli ha fatto sapere qualcuno – ed è stato proprio il presidente del Consiglio dimissionario a non voler ascoltare le sirene del suo staff, che gli consigliava di essere più morbido, di lasciare aperto uno spiraglio, di non mettere la pietra tombale sopra il governo con la Lega. Ma lui non ha sentito ragioni. E di quel j’accuse lungo 45 minuti non rimpiange nulla, nemmeno il rischio – di cui lo hanno avvertito al banco del governo – di aver sbagliato la citazione di Federico II di Svevia: “L’ho presa da Kantorowicz, sono corso a controllare la pagina: era giusta”.

Ma Conte non rinnega neanche nulla dei 14 mesi trascorsi a Palazzo Chigi con Matteo Salvini: “Nessun ravvedimento”, ha scandito a Palazzo Madama. E ancora oggi si rende conto, lui ex elettore del centrosinistra (fino al No al referendum renziano), di essere visto come uno dei simboli del contratto gialloverde. Ma il tradimento del Papeete è stato per lui uno scoglio insuperabile, aggravato dal ritiro in extremis della mozione di sfiducia contro di lui.

Per questo guarda sbigottito ai “ponti d’oro” che gli esponenti della Lega stanno facendo in queste ore ai Cinque Stelle, alle dichiarazioni di Salvini che ancora si dice disposto a “guardare avanti” se “i no diventano sì”. Offerte che qualcuno, nel Movimento, continua a prendere in considerazione. Ma “la durezza del mio discorso – ha ragionato Conte con i suoi – non ha impedito ai seviziatori della Lega di tornare dai seviziati 5Stelle. Però forse impedirà ai seviziati 5Stelle di cadere vittima della sindrome di Stoccolma e di tornare con i seviziatori”.

È pronto a tornare alla vita da avvocato e professore, Conte, ma certo lo lusingano gli attestati di stima che sta ricevendo, compresa l’inattesa telefonata – l’unica proveniente dai dem – di Romano Prodi, che gli ha ribadito la necessità di una “coalizione Ursula” che lo veda protagonista, un patto tra le forze che a Bruxelles hanno eletto la Von der Leyen a presidente della Commissione Ue.

È onorato, Conte. Ma pure consapevole che l’ipotesi di un accordo col Pd è complicata. E necessita che si riconoscano anche alcuni errori fatti finora. Anche lui pensa, come Mattarella, che “o si riesce a siglare un accordo blindato, un patto di legislatura di durata garantita, o è meglio andare a votare subito”. Prima che Salvini rialzi la testa dopo il calo di consensi seguito a una crisi incomprensibile agli italiani.

I tempi stretti che Mattarella si è detto disposto a concedere non depongono a favore di una soluzione positiva. E il premier sa che la discussione sul suo nome è un elemento decisivo della trattativa, ma non fa nulla per rientrare in gioco. Ma comprende anche l’ansia di Zingaretti di liberarsi di una figura popolare e ingombrante come la sua più che dell’indebolito Di Maio. Non pensa di essere indispensabile, però. E ritiene che il M5S abbia “tanti eletti, anche al primo mandato, su cui investire proficuamente”.

Prima che i giorni della riflessione finiscano, il premier ha ancora delle faccende da sbrigare, e nemmeno di poco conto. Mercoledì si è congedato dal suo staff a Palazzo Chigi. Ha firmato il testo che lo trasforma in premier in carica solo per “gli affari correnti”. Ha intimato ai ministri di evitare nomine last minute. Poi è partito per la campagna romana, per un paio di giorni di relax in famiglia. Sabato è atteso a Biarritz, in Francia, per il G7. Ed entro lunedì dovrebbe indicare il nome del Commissario italiano a Bruxelles, seppure il termine non sia perentorio. Conte ha rinviato ogni valutazione al dopo-crisi: se l’accordo tra Pd e 5Stelle dovesse chiudersi positivamente, sceglierà un tecnico-politico che rappresenti la nuova area di maggioranza. Conte si consulterà con Mattarella e Von der Leyen, ma è dell’idea che non si debba temporeggiare per la nomina, onde evitare che il commissario italiano entri in carica in ritardo, abbia poco tempo per preparare l’“esame” europeo ed entri in corsa a partita iniziata. Anche perché chiunque vada dovrà prepararsi. Conte l’aveva detto anche a Giancarlo Giorgetti, qualche settimana fa: “Dovrai passare l’estate a studiare”. Poi è andata com’è andata. Con quel discorso al Senato, che ha trasformato ogni tentazione di tornare indietro in un’impresa indecente. Almeno per Conte.

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