A colloquio

Lino Capolicchio: “Assediato dalle donne, mi rinchiudevo nei negozi. Il successo è un veleno”

Da Strehler ad Avati - Riproponiamo la nostra intervista del 2019 all'attore scomparso ieri sera all'età di 78 anni

Di Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo
28 Luglio 2019

Il tono è pacato, l’atteggiamento è consapevole, quasi complice, il concetto è diretto; la sostanza non lascia alibi: “Il grande successo è come un veleno immesso nelle vene, una droga talmente forte da non poterne più fare a meno”. Quel veleno Lino Capolicchio lo conosce benissimo, non lo ha combattuto, inutile, ma affrontato e vissuto; cavalcato e goduto, giusto qualche volta subìto (“dopo aver girato Il giardino dei Finzi Contini ero assediato dalle fan. Una follia quotidiana”). Ha vinto un David, ha girato con i grandi della cinepresa: Vittorio De Sica, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi, Carlo Lizzani e per nove volte è stato scelto da Pupi Avati (è anche ne Il Signor Diavolo, in sala dal 22 agosto). E a quasi 76 anni riconosce una certa fortuna nella propria esistenza, ma quando parla di Fellini e del mancato ruolo in Satyricon, gli occhi diventano piccoli, perdono il loro azzurro, i concetti duri: “Il più grande dolore professionale della mia carriera”.

Insomma, con Avati siete al nono…

A Comacchio, nel mio ultimo giorno di riprese e negli ultimi attimi, mi ha piazzato una mano su una spalla: “Pensa Lino, siamo nello stesso punto in cui abbiamo girato una scena de La casa dalle finestre che ridono (1976): sono passati quarant’anni e non ce ne siamo accorti.

Lì aveva un ruolo ambiguo.

Sono abituato, mi è capitato spessissimo.

Come mai?

Perché all’inizio della carriera, nel1969, ho interpretato Ric in Metti, una sera a cena: personaggio complesso, uno che a pagamento andava con uomini e donne, e in una delle scene c’è un bacio a tre. Ovvio scattarono le polemiche.

Feroci?

Anche mia madre inorridita: “Ma giri questi film? E poi sei sempre nudo!” Mamma, è il personaggio. “È terribile”.

Quindi…

Da allora ho l’etichetta dell’attore bravo a interpretare personaggi particolari.

Le è pesato?

Nel quotidiano sono una persona rigorosa, chiusa e censurata, mentre sul lavoro sfogo il mio contrario, sono pronto a tutto, e già allora me ne fregavo di quel che accadeva.

Dopo “Metti, una sera a cena” tra lei e Patroni Griffi è nato un rapporto forte.

Si era innamorato di me: con gli omosessuali mi è accaduto spesso; (sorride) ho ricevuto tante lettere d’amore, da Mauro Bolognini in particolare.

La sua reazione?

Imbarazzato.

E con le donne?

Ho vissuto anni di delirio collettivo, soprattutto dopo il ruolo da protagonista ne Il giardino dei Finzi Contini: ogni giorno mi aspettavano circa 200 ragazze.

Rockstar.

Situazione problematica, si infilavano ovunque, e ne dovevo rispondere pure con gli altri; una sera il direttore di un albergo mi chiama: “C’è una ragazza che ci sta stressando, non ne possiamo più”.

Ha ancora quelle lettere?

Forse non è chiara la portata: dopo Il giardino ne ho ricevute più di cinquemila e da tutto il mondo, dalla Cina alla Svezia, dall’Argentina al Giappone. Io inconsapevole di suscitare tali sentimenti.

Proprio inconsapevole, no.

In realtà ho sempre stimolato una sorta d’ipnosi: a sei anni, la maestra di scuola è andata da mia madre con una richiesta bizzarra: “Voglio adottare suo figlio: è speciale, strano, curioso”.

Sua mamma?

“Non se ne parla proprio”. Mentre papà mi odiava, uomo terrificante, mi voleva strozzare, picchiare, sbarazzarsi di me: ad appena sette anni mi ha spedito in collegio.

In competizione con lei.

Il giorno in cui gli ho comunicato l’idea di diventare attore, ha risposto: “Sai qual è la tua fine? Chiederai l’elemosina”.

E quando è arrivato al successo?

Ha derubricato: “Sei stato fortunato. Devi ringraziare la natura”. Non mi ha voluto sul letto di morte, ha finto di stare bene pur di non vedermi.

Per fortuna, mamma.

Ero innamorato di lei. Donna bellissima.

Il cinema.

Tutto nasce dalla figlia del panettiere sotto casa: lei 15 anni, io 12. Ero pazzo di lei. In uno dei miei infiniti pellegrinaggi per vederla, mi guarda e s’illumina: “Hai un volto da cinema, pensaci”. Pensaci? Ho iniziato a guardarmi per ore allo specchio, desideravo capire se aveva ragione o meno.

Fino a quando.

Affronto mamma: “Basta con questa rottura del pianoforte, del solfeggio, voglio un’insegnate di recitazione”.

E…

Mi asseconda, la trova, ma la signora accetta con riserva: “Prima voglio verificare le sue capacità”. Mi presento con il monologo di Antonio dal Giulio Cesare di Shakespeare. L’insegnante resta sulle sue: “Impegnativo”. Finisco la prova e resta in silenzio.

E poi?

Chiama mia madre: “Devo dirle due cose di suo figlio. Uno: è la persona più presuntuosa mai conosciuta; due: ha talento assoluto”.

Così presuntuoso?

Moltissimo.

E come lo manifestava?

Avevo un atteggiamento di chi afferma: sono bello, sono bravo, sono intelligente. Cosa desiderate di più?

Come reagivano i registi?

Mi hanno perdonato.

Non provavano a metterla al suo posto.

Certo, in molti (e gli brillano gli occhi).

Tipo Giorgio Strehler.

Mi adorava, aveva un atteggiamento paterno, quando arrivava il pizzicotto sulla mia guancia era matematico; fino a quando oltre al pizzicotto ha associato l’esigenza di un chiarimento: “Per caso sei un po’ checca?”. “No maestro, mi piacciono e molto le donne”.

Sia ben chiaro…

All’epoca ero fidanzato con una ragazza di una bellezza spropositata: viso da madonna su un corpo da pin up, l’unica che avrei sposato.

Quindi…

Un giorno sono con lei all’ingresso degli artisti e vedo arrivare Strehler. La mando via. Alla fine delle prove il maestro si avvicina: “Chi era?”. “La mia fidanzata”. “Allora non sei davvero checca”.

Omofobo.

Solo curiosità: doveva sapere tutto.

Il dopocena a teatro è così importante?

È fondamentale, è il momento del pettegolezzo, della leggerezza, della valutazione soggettiva dei colleghi; con Volontè erano sedute di confronto, lui mi chiamava Tolstòj.

Con Volonté sempre riferimenti comunisti.

Perennemente. Una sera ci incontriamo, e si lamenta: “Ho appena finito di girare una stronzata in Spagna, un set lunghissimo, non finiva mai per assenza di fondi. Non voglio più cascare in queste situazioni terrificanti”. Il film era Per un pugno di dollari.

Perfetto.

Un’altra volta siamo in pizzeria, la cameriera molto carina. Noi ci proviamo. Lei esasperata pone la giusta distanza: “Sono fidanzata”. “Non importa, mica vede niente”. “In realtà è qui, è il pizzaiolo”.

Bella figura.

A quel punto ce lo presenta e conosciamo un traccagnotto meridionale, cordiale. “Salve”. “Piacere”. E la ragazza: “Ha una voce pazzesca”. Noi divertiti: “Ci canti qualcosa?”. “Qui no, solo pizze”. Il traccagnotto era Al Bano.

Torniamo al cinema: il primo film importante è del 1968, Faenza alla regia.

Al primo incontro arrivo con i capelli lunghi e ossigenati. Non ero un bel vedere. Quando mi vede, apostrofa: “Parlano bene di lei, ma sembra frocio e drogato”.

Ecco.

La fortuna non mi ha mai abbandonato, e così la segretaria di produzione si incavola con Faenza e il produttore: “Continuate a chiedere provini a tutti, ma è Capolicchio quello giusto”.

La sua bellezza l’ha limitata?

Mi ha aiutato.

All’inizio ha parlato di “veleno”.

Sì, te lo iniettano. Diventa vitale. (Cambia tono) Oltre alle 200 ragazze ad aspettarmi, per un periodo non ho potuto camminare per la strada: assalito; un pomeriggio, in piazza Risorgimento a Roma, mi sono rifugiato nella farmacia di un’amica al grido: “Chiudi la porta!”

Idolo assoluto.

In quegli anni sono arrivati a offrirmi il ruolo di testimonial della Coca Cola, con annesso un assegno da brividi.

Lei, niente.

Una cifra incredibile per pochi giorni di lavoro: quando mia madre lo ha saputo, è realmente svenuta; ma per me, allora, la pubblicità era professionalmente disdicevole. E poi guadagnavo molto bene.

Oggi meno?

Rispetto a quei tempi lavoro quasi gratis.

Impegnato politicamente?

Sempre votato a sinistra, mai iscritto. Partecipavo a qualche manifestazione, seguivo Volontè. Mi interessavo al dibattito interno al cinema, alla salvaguardia del ruolo di attore. Niente più.

Vittorio De Sica.

Come tutti lo appellavo “commendatore”; solo un po’ di tempo dopo ottenni una concessione: “Mi puoi chiamare signor De Sica”.

Il set con lui.

Faticoso, era un cesellatore di recitazione, una battuta la potevi ripetere decine di volte, però sentivi l’opera di un maestro: era in grado di mostrare a ognuno la propria parte, anche per i ruoli femminili, e le scene d’amore.

Giuseppe De Santis.

Persona speciale, un comunista con un rigore assoluto nei confronti della professione.

Tradotto?

Erano anni che non lavorava e finalmente chiude per un film. Mi coinvolge. A ridosso delle riprese arriva il produttore: “Dalla sceneggiatura devi tagliare almeno 30 pagine”. Cosa? “Sì”. Risultato? Ha sospeso tutto e lo abbiamo girato molto tempo dopo.

Un ruolo mancato?

Fellini è il dolore più grande.

Come mai?

Doveva girare Satyricon, quindi mi convoca: “Capolicchio, se la prendo deve andare in palestra”. “Nessun problema”. “Ci sono molte scene di nudo”. “Maestro, va bene”. E aggiunge: “La questione è la seguente: il produttore vuole lei e Pierre Clementi, mentre io preferirei due volti non noti. Per questo noi abbiamo risolto con una scommessa: chi vince decide i protagonisti”.

Ha vinto Fellini.

Con una grande “però”: Martin Potter, l’attore preso al mio posto, era identico a me. Identico.

Si è avvelenato.

Di più: ancora sono incazzato nero. Furibondo. (torna a sorridere) Poi ho perso Profondo rosso, e a causa di un incidente spaventoso, anzi mortale.

Colpa sua?

All’epoca vivevo dei disguidi con mia moglie, temevo mi avvelenasse perché la tradivo e lo aveva scoperto: per questo vivevo in Scozia, da amici.

Scelta comoda.

L’agente mi chiama: “Torna a Roma c’è un ruolo per te nel prossimo di Argento”. Obbedisco. Incontro Dario e mi dà la sceneggiatura: “Leggila nel weekend e ci vediamo la prossima settimana”. Va bene. Decido di andare a trovare mio figlio nelle Marche, non lo vedevo da mesi, ma non guidavo; allora chiedo a un’amica di accompagnarmi.

Ecco l’incidente.

Un frontale con un pazzo. Per me una batosta, ginocchio a pezzi, mentre la mia amica in coma. Addio film. Ma il punto è un altro: tempo dopo torno a rivedere l’auto e insieme alla compagna di sventura. Distrutta. Guardo dentro e sul sedile posteriore c’era la sceneggiatura di Dario, intatta, ma ogni pagina, sottolineo ogni, era macchiata di sangue e ancora rosso.

Per anni ha insegnato al Centro Sperimentale e scoperto grandi attori.

Pierfrancesco Favino, Sabrina Ferilli, Francesca Neri, Alessio Boni, Iaia Forte, Paolo Virzì. Tutti veramente bravi.

Il primo?

Favino: l’ho visto a un provino mi è immediatamente piaciuto, lo volevo, ma c’era un problema: “Sei bravo, ma il personaggio è veneto e tu sei romano”. Lui tranquillo risponde: “Per combinazione la mia ragazza è di Treviso, se vuole parlo come la sua famiglia”. Cacchio, era perfetto.

Fuoriclasse.

Assoluto e certe cose le sento: ho un orecchio da musicista, se i suoni sono quelli giusti o superiori, allora fermo tutto. E con lui è andata così.

Momenti di imbarazzo?

(Scoppia a ridere) A Vercelli, di fronte a un risotto strepitoso, mi avvicina lo chef: “L’ammiro tanto”. Ringrazio compiaciuto, pensavo si riferisse a Il giardino. Poi aggiunge: “Sono un fan di Hazard (telefilm dei primi Ottanta), e lei ha doppiato Bo (uno dei protagonisti)”. Non ci volevo credere.

Nella vita si è divertito?

È stata una bellissima avventura, senza grandi problemi fisici. Giusto ora qualcosina soffro, ma l’oncologa mi ha detto “lei è un bell’uomo anche così”. Quindi va bene.

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