Me ne frego, il fascismo iniziò dal linguaggio e poi si fece Stato. E non l’abbiamo mai rimosso

14 Maggio 2019

Nella discussione sul senso del Novecento, il fascismo italiano, rispetto ai grandi sistemi totalitari carichi di morti, appare come un elemento di contorno, per certi aspetti un governo illiberale (una roba di provincia, quasi a denuncia della sua “italianità”). Un’approssimazione per difetto rispetto ad altre realtà (Germania nazista, Russia sovietica) che, invece, rappresenterebbero “il canone”. […]

Si fa presto a dire fascismo e credo che di questi tempi si usi questa parola con disinvoltura eccessiva. Ha ragione Madeleine Albright quando scrive che “il fascismo è a tutti gli effetti un concetto alla moda, che si fa strada nel dibattito sociale e politico come una pianta infestante”. Il fascismo è contrapposizione tra destra e sinistra; primato dello Stato; primato del partito unico; culto del capo; eliminazione delle opposizioni. Aggiungo che il razzismo di per sé non è un prodotto del fascismo. Il razzismo è un fenomeno presente anche in realtà non fasciste negli anni dei fascismi (negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna). Diviene, invece, una componente essenziale del fascismo quando è coniugato al totalitarismo e all’antisemitismo. Ma resta il problema. Perché la non coincidenza tra allora e ora non esclude altre cose. E soprattutto non esclude che si possa legittimamente fare comparazione. Per farla, bisogna prendere in mano i documenti e lasciarli parlare. Diversamente si fanno solo chiacchiere. […]

Claudio Pavone, lo storico, ha ricordato come il fascismo non sia caduto il 25 aprile 1945, ma come ci sia stata una “continuità dello Stato” (organi di polizia, prefetti, strutture della burocrazia, docenti universitari, apparato scolastico) che ha avuto una lunga vita oltre il fascismo, tanto da configurarsi come aspetto strutturale dell’identità italiana del Novecento. […]

Uno dei campi dove misurare questa lunga continuità è il linguaggio, e anche alcune idee strutturali del modo di pensare il rapporto tra “Io individuale” e “Noi collettivo”. La continuità risiede soprattutto nel linguaggio che dalla protesta (prima ancora che Mussolini sia “il Duce”) arriva alla costruzione del Duce. È lungo l’asse temporale che sta tra il Mussolini agitatore e dirigente socialista dei primi anni del Novecento, fino alla definizione dell’identità collettiva italiana con cui si costruisce in forma consolidata il regime (e dunque tra 1926 e 1928), che quel linguaggio prende corpo definitivamente.

Prende corpo nello stile, nella “lingua di Benito Mussolini”, sia negli anni della sua militanza socialista, sia in quelli del suo essere “Duce”; tanto nello stile retorico, uso delle forme verbali, modalità del discorso pubblico, quanto nei temi o nelle immagini che quella retorica acquista già negli anni del suo esordio in politica, all’inizio del Novecento, e che riassumo in questi: elogio della teppa; antipolitica; autorappresentazione come Italia e dunque definizione di tutti gli avversari politici come Antitalia; sovranismo economico e politica monetaria nazionalista; elogio della famiglia come patrimonio culturale da tutelare e come modello economico da salvaguardare.

Su questi temi si costruisce il linguaggio fascista molto prima che esso si incontri con le politiche colonialiste, razziste e antisemite della seconda metà degli anni Trenta, che oggi appaiono all’italiano medio imbarazzanti e dunque da respingere (al più un errore di percorso, che nella prima parte della sua storia, appunto negli anni Venti, aveva fatto anche “delle belle cose”, secondo un mito che, come ha ricordato di recente Francesco Filippi, è una profonda convinzione dell’italiano medio, indifferentemente dall’appartenenza sociale).

Quel linguaggio, che nelle sue componenti essenziali era già tutto costruito prima di quella svolta, è stato traghettato – incontaminato o pressoché invariato – nel nostro linguaggio corrente e, insieme al sentimento che gli è congiunto, ha prodotto una sensibilità che parla di noi (di allora e di ora). Con quella sensibilità noi italiani non abbiamo mai fatto i conti. La conseguenza è che essa è rimasta parte strutturale del nostro senso comune.

La forza e il successo di quel costrutto politico e culturale stanno anche in due elementi costitutivi della crisi politica italiana di allora (ma che di nuovo allude anche al reticolo concettuale della nostra crisi di oggi): da una parte l’insofferenza per una classe dirigente di tutelatori e di burocrati – avvertiti come lontani, estranei, “nemici” – che governano l’Italia tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale; dall’altra l’agitazione – rappresentata proprio dalla “svolta” di Mussolini nell’ottobre del 1914 – sulla necessità dell’intervento, cui rispondono positivamente democratici, sindacalisti rivoluzionari, ma anche una figura fino a quel momento marginale, e che proprio da quella crisi inizia un percorso di riflessione, ovvero Antonio Gramsci. Ne risultano una funzione e una immagine della politica non più come amministrazione, o buona gestione, bensì come proclamazione, come agitazione. Quanto di questa immagine motiva la convinzione diffusa nel nostro tempo? Quanto questa immagine parla ancora al nostro presente di crisi?

David Bidussa è Storico sociale delle idee. Autore di “Me ne frego” (Chiarelettere), una raccolta di discorsi, articoli e interventi di Benito Mussolini, 1904-1927. Il testo che qui pubblichiamo è tratto dall’introduzione

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