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Il boom degli sbarchi dalla Libia: pressioni sull’Italia per ottenere più mezzi e soldi

D-Day - In questi giorni le partenze dall’Africa sono aumentate. È un segnale

21 Gennaio 2019

“Le Ong tornano in mare davanti alla Libia, i trafficanti tornano ai loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Meno partenze, meno vittime”. Il mantra del ministro Matteo Salvini, anche in queste tragiche ore, resta lo stesso. Il punto è che, proprio in queste ore, è il concetto “meno partenze” che traballa. E la presenza delle Ong nel Mediterraneo – peraltro soltanto una: la Sea Watch – non ha alcun peso. La politica estera italiana – Salvini lo sa, ma non lo dice – invece sì.

Il Fatto ieri l’aveva anticipato: il 20 gennaio sarà un giorno di nuove partenze. Non è stato difficile: abbiamo chiesto ai migranti salvati dalla Sea Watch 3, attraverso l’inviato di Carta Bianca Giuseppe Borrello, cosa stia accadendo sulle coste libiche. La risposta: “Dal 20 sarà il D – Day”. E infatti almeno cento persone sono partite. L’Italia ha in Libia – in pianta stabile – almeno 10 funzionari dell’Aise: immaginiamo che lo sapessero anche loro. Il territorio è presidiato: è in corso una missione del nostro esercito. Non solo. Abbiamo fornito ai libici 6 motovedette, implementato una sala operativa e consentito che ottenessero il controllo dei soccorsi in mare. Ma a quanto pare, per Salvini, queste partenze sono una sorpresa e dipendono dalla Sea Watch. L’assunto è offensivo, più che dell’intelligenza, della nostra intelligence.

I dati Onu dimostrano che al 16 gennaio, rispetto allo stesso periodo del 2018, si registra il raddoppio degli sbarchi: passiamo da 2.365 a 4.216. A questi ultimi vanno aggiunti i 320 migranti partiti nelle ultime 72 ore – oltre la metà dei quali, ben 170 – sono morti annegati per l’assenza di soccorsi. Un centinaio, mentre scriviamo, navigano alla deriva ed è proprio la Sea Watch che sta tentando di raggiungerli per il soccorso. E quindi: piuttosto che additare l’Ong, meglio concentrarsi su altri dettagli.

L’Aise – già con il vecchio governo – ha investito tantissimo nel “dossier Libia” che l’ex direttore Alberto Manenti aveva affidato – dandogli carta bianca – al suo vice Gianni Caravelli. L’intelligence ha messo in campo uomini – 10 in pianta stabile –e soldi. E le partenze sono drasticamente diminuite. Piccolo effetto collaterale: sempre più migranti restano rinchiusi nei lager libici. Abbiamo creato un tappo.

“È noto – dice al Fatto una fonte qualificata sotto anonimato – che la nostra intelligence negli ultimi due anni abbia cercato, e poi trovato, il modo di ‘ungere’ le fazioni libiche per fermare le partenze. Nessuno l’ammetterà mai, né i pagamenti avvengono con fattura, ma è così”. Ora però gli equilibri sono cambiati. Non per un cambio di strategia. Sono cambiati gli uomini al comando.

Due mesi fa Manenti è stato sostituito dal generale della Gdf Luciano Carta. Il dossier Libia – per quanto ci risulta – resta sotto la super visione di Cavarelli. Un mese fa è cambiato l’ambasciatore a Tripoli: Giuseppe Buccino ha sostituito Giuseppe Perrone. “Il gioco è lo stesso”, conclude la nostra fonte, “ma al tavolo c’è gente nuova. E i libici rilanciano la posta. Che può risolversi in un fuoco di paglia”. Il “fuoco” sono le partenze di queste ore. Se sarà di paglia lo vedremo. I libici aspettano mezzi e soldi: l’Ue non ha ancora mantenuto le promesse, molti progetti sono finanziati, sì, ma restano al palo. Il tanto declamato presidio nel Fezzan – regione libica al confine con il Niger – è un miraggio: doveva servire a controllare il flusso da Sud ma serve a poco o niente. La conferenza di Palermo, che doveva servire a risolvere la crisi libica, non ha prodotto risultati.

I libici devono passare all’incasso e ogni barcone in mare è un innesco di crisi per l’Italia e per l’Europa. Lo sanno bene i trafficanti, che auspicano di essere “unti” maggiormente, come chi aspetta lo sblocco di fondi e progetti. Il tappo è saltato. E la gente muore. A meno che la Sea Watch non arrivi a salvarla.

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