I veri conti

Carige, sulla strada della soluzione di mercato l’ostacolo dei crediti deteriorati

Di Maio e Salvini a favore dell’ingresso dello Stato. Tria preferisce il modello delle due venete, regalate a Intesa e “ripulite” grazie ai contribuenti. L'istituto ha in pancia crediti malati netti per 2,3 miliardi, il 15% sul portafoglio impieghi

Di Fabio Pavesi
10 Gennaio 2019

Non c’è voluto molto tempo. Passati pochi giorni dal commissariamento, il governo ha assunto una posizione molto esplicita. Carige può, o meglio deve, essere “nazionalizzata”. Di Maio ieri è stato tranchant. “Quel che posso dire è che crediamo nella nazionalizzazione, l’unica strada percorribile per il M5S”. Anche il fronte leghista pare essere sulla stessa lunghezza d’onda. Giancarlo Giorgetti ha risposto sì a una domanda sull’eventuale pubblicizzazione della banca: “La nazionalizzazione è un’eventualità prevista dal decreto se non si verificano alcune condizioni, quindi se nessun privato ci mette i soldi arriverà”, ha dichiarato. “L’obiettivo è salvarla sotto lo Stato. Se ci saranno utili ci guadagnerà lo Stato”, ha rimarcato Matteo Salvini. Più cauti il ministro dell’Economia Giovanni Tria – per cui la soluzione di mercato è la via preferibile (e nel caso l’ingresso dello Stato sarebbe “temporaneo”) – che il commissario di Carige Pietro Modiano, che ritiene l’ingresso dello Stato un’opzione “residuale” e “più che astratta”.

Fin qui la cronaca politica della giornata. Ma sul piano tecnico, quello cioè dello stato di effettiva salute della banca di Genova e del suo immediato futuro, quanto è giustificabile una nuova nazionalizzazione dopo quella di Mps? È davvero l’unica strada percorribile?

La banca ligure non è mai stata di fatto risanata dal suo vero tallone d’Achille, le sofferenze e i crediti malati lasciati in eredità da Giovanni Berneschi. Nonostante 4 anni di pulizie e vendite parziali di prestiti marci costate già 3 miliardi di svalutazioni, Carige si ritrova con 4,8 miliardi di crediti deteriorati lordi. Valgono ben il 27,5% dell’intero portafoglio crediti. Certo le rettifiche già compiute hanno coperto il 51% di questo ammontare. Ma non basta dato che i crediti malati netti sono tuttora di 2,3 miliardi, un livello del 15% sul portafoglio impieghi, doppio rispetto alla media del sistema bancario italiano.

È qui l’anomalia mai sanata dai tre amministratori delegati succedutisi alla guida della banca sotto la gestione del primo socio, Vittorio Malacalza. Per riportare tassi di sofferenze in linea con la media del sistema devi di nuovo mettere mano al portafogli, cedendo almeno un miliardo di prestiti malandati netti: ovviamente il prezzo sarà una percentuale (il 20-30% del nominale secondo i corsi del mercato) con una perdita secca di almeno 700 milioni. Ecco perché tutti sanno che occorrono nuovi capitali per far uscire Carige definitivamente dal cono d’ombra: il patrimonio netto oggi è di 1,8 miliardi e verrebbe eroso pesantemente dalla vendita delle sofferenze. Trovare un privato disposto a rilevare l’istituto ligure con questa cambiale in scadenza pare non facile. Certo potrebbe accollarsi il peso il Fondo interbancario che diverrebbe il nuovo padrone della banca semplicemente convertendo il bond da 320 milioni in capitale. Ma ve li immaginate un consorzio di banche come nuovo socio forte? Strada irta di ostacoli.

L’altra alternativa di mercato, quella che preferirebbero Tria e i neo-commissari, è il matrimonio con un solo cavaliere bianco. Si ripeterebbe il copione Intesa-banche venete. E quel copione dice che chiunque chiederebbe che la parte malata delle sofferenze resti in capo allo Stato, magari alla Sga. L’onere del peso dei crediti marci rimarrebbe in capo ai contribuenti e di fatto si regalerebbe la parte sana a un diretto concorrente. Tra un onere comunque pubblico, accompagnato da un regalo a un privato (linea Tria), forse a questo punto è meglio che il pubblico si tenga tutto il pacco, compresi depositi, impieghi sani e quel che di buono c’è in Carige (linea Di Maio & C).

Guardando al passato, invece, quel che colpisce è l’inettitudine e il tempo lasciato scorrere invano: mentre Malacalza litigava coi suoi timonieri aziendali, la banca si inabissava. I prestiti sono stati tagliati passando da oltre 21 miliardi a soli 16: con un credit crunch del genere puoi vendere quante sofferenze vuoi, ma il rapporto coi crediti malati resterà sempre troppo alto (in anni di presunta cura è sceso solo dal 34 al 27,5%). E se la banca viene frenata così violentemente non puoi che avere ricadute sui ricavi, calati del 30% sotto Malacalza. Si sono tagliati i costi, ma la caduta dei ricavi è tale che oggi la prima voce si mangia il 90% delle entrate (la media è al 65%). Tutti i parametri fuori controllo quindi: da quelli di conto economico alla tenuta patrimonale per la spada di Damocle inevitabile che sarà la pulizia definitiva dei crediti malati. La soluzione pubblica potrà non piacere, ma il principio di realtà dice che oggi è l’unica strada percorribile.

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