Sanità

“Chimaera”, il batterio killer: migliaia di malati a rischio

Il caso - L’infezione che ha ucciso otto cardiopatici in Veneto e due in Emilia compare a Brescia. Può emergere a distanza di anni. Spediti 10 mila avvisi

24 Novembre 2018

“Quarantamila procedure di circolazione extracorporea in un anno. Quasi tutte compiute con lo stesso dispositivo – 218 installati negli ospedali italiani – che ha provocato l’infezione da batterio chimaera”, spiegano alti dirigenti del ministero della Salute. Intanto in Emilia oltre diecimila pazienti cardiochirurgici stanno per ricevere una lettera dalle autorità sanitarie in cui vengono avvertiti, in caso di febbre anomala, di contattare il medico di base.

Bastano questi dati per spiegare l’attenzione molto alta sul batterio che si annida nelle macchine per la circolazione extracorporea: “Finora gli eventi avversi”, cioè le morti, “sono stati 185 nel mondo, di cui 10 in Italia (8 in Veneto e 2 in Emilia Romagna)”, aggiungono al ministero. Ma le segnalazioni della presenza del batterio negli apparecchi aumentano: l’ultima agli Spedali Civili di Brescia. Il timore è che nelle prossime settimane i dati possano crescere esponenzialmente, perché tutte le Regioni sono state richiamate dal ministero a indagare nei propri database per vedere se vi siano casi sospetti. Finora poche hanno presentato i risultati, ma il ministero è pronto a sollecitarle per stringere i tempi.

Soltanto allora potremo sapere quante vittime ha fatto e rischia di fare il batterio. Decine di migliaia di persone potrebbero essere entrate in contatto con il chimaera: 40 mila l’anno dal 2011, quando il fenomeno venne per la prima volta segnalato: “Il guaio è che questo batterio si manifesta dopo un periodo che va da 17 mesi a cinque anni”, spiegano al ministero dove un gruppo di lavoro monitora la situazione.

L’opinione pubblica, però, è venuta a conoscenza della minaccia del chimaera soltanto pochi giorni fa. Il 2 novembre scorso, infatti, a Vicenza è morto il dottor Paolo Demo, 66 anni. Parliamo di un noto e stimato anestesista che nel 2016 era stato operato a cuore aperto per la sostituzione di una valvola aortica. Proprio nell’ospedale dove lavorava, il San Bortolo di Vicenza. Demo, purtroppo, in quell’occasione fu infettato dal batterio che nelle forme più gravi può essere mortale. Fu lui a scoprirlo e a raccogliere, nonostante il male che lo consumava, un dossier. Un pesante atto d’accusa che subito dopo la morte i suoi familiari hanno presentato alla Procura di Vicenza, che ha cominciato le indagini. E subito sono emersi altri casi su cui indagare: 8 decessi e 18 pazienti contagiati.

Ma è soltanto l’inizio. L’atto d’accusa di Demo ha smosso le acque: due casi sono stati registrati a Reggio Emilia. Si tratta di due pazienti che erano stati operati al cuore presso il Salus Hospital, una struttura dove ogni anno vengono effettuati circa duemila interventi. Ma l’inchiesta in Emilia non è terminata, ci sono almeno altri due casi sospetti.

Intanto ieri, durante un controllo di routine, il batterio chimaera è stato rinvenuto in due macchinari operatori dell’ospedale Civile di Brescia. Finora non risultano persone contaminate dal batterio. Ma il compito del ministero e delle autorità sanitarie è complesso. E va in due direzioni: uno, studiare le cartelle cliniche di pazienti che potrebbero essere stati contagiati negli anni scorsi dal chimaera. Due, verificare che il batterio non sia oggi annidato negli apparecchi degli ospedali.

Al ministero specificano che il batterio non è contagioso, quindi i malati non possono trasmetterlo alle persone con cui entrano in contatto. Il chimaera è pericoloso soprattutto per soggetti già debilitati. Resta, però, da valutare il rischio cui potrebbero essere esposti i medici in sala operatoria.

L’allarme era partito proprio dalla stessa società produttrice dell’apparecchiatura, la LivaNova, un colosso che ha quasi il monopolio nel settore. Tanto che la multinazionale ha spedito migliaia di lettere ai clienti dei suoi macchinari sparsi per il mondo: “Gentile cliente”, era scritto, “negli ultimi due anni LivaNova e la comunità cardiochirurgica hanno appreso molto su un rischio recentemente identificato per i pazienti operati a cuore aperto di contrarre infezioni da microbatteri non tubercolari”. Ma non si è mai ritenuto di ritirare i dispositivi dal mercato, preferendo chiedere agli ospedali una “sanificazione”. Una misura adeguata? Deanna Wilke, direttrice della Comunicazione della Liva Nova, risponde da Houston: “Il 3 T è un apparecchio necessario per realizzare con successo interventi di bypass cardiopolmonari. Ma non entra in contatto con il paziente e non è sterile. La sterilità dipende dall’ambiente. Abbiamo assistito i nostri clienti e fornito loro ogni possibile aggiornamento per prevenire l’infezione da chimaera che riguarda un paziente cardiochirurgico ogni 10mila”.

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