L’intervista

Confesso che ho vissuto (e non credevo così tanto): il nuovo libro di Massimo Fini, il suo sguardo alla malinconia

Esce la raccolta delle opere “personali” del giornalista: riflessioni sul tempo che passa e sull’evoluzione della situazione italiana

26 Maggio 2018

Il titolo è preso in prestito da Pablo NerudaConfesso che ho vissuto – lo sguardo nella foto di copertina alla malinconia. È un ritratto lagunare di un giovanissimo Massimo Fini, Venezia che sfuma sullo sfondo: il libro è una raccolta, la seconda dopo quella dei saggi storico-filosofici, che comprende le opere più “personali” del giornalista, da Dizionario erotico a Una vita, passando per Ragazzo.

Massimo, il sottotitolo è esistenza inquieta di un perdente di successo. Perché perdente?
Sono conosciuto in una ristretta cerchia di persone, magari di valore, ma certo non ho avuto gli exploit professionali di altri. È stato un lavoro faticoso, il mio. Ha detto bene Arbore: “Fini è uno che guarda sempre da un’altra parte.” Sono sempre stato laterale, non me ne lamento perché da un certo momento in poi è stata una scelta. E pretendere che giornali come il Corriere o la Stampa mi chiamassero era impossibile, avevo preso posizioni troppo stravaganti.

Anche Pasolini non aveva idee convenzionali. Eppure Piero Ottone lo chiamò al Corriere.
Non facciamo paragoni blasfemi! Erano anche altri tempi, in cui il Corriere si permetteva il lusso di ospitare un intellettuale totalmente fuori dagli schemi. Adesso questa figura del bastian contrario di livello – in cui metto, con le dovute differenze, anche Bocca e Montanelli – non esiste più.

Veniamo al Conformista, anche se non è in questa raccolta, in cui lei fa l’elogio dell’anticonformismo in tempi in cui – tra gli anni Ottanta e Novanta – era una bandierina della borghesia. Oggi, nell’assoluta assenza di pensiero critico, assistiamo a un conformismo di ritorno.
Si è abbassato il livello della classe politica e di quella intellettuale, non si riesce più a opporsi all’orrendo politically correct e al pensiero dominante. La responsabilità, oltre che della politica, è degli intellettuali e dei giornalisti.

Il “tengo famiglia”?
Il tengo famiglia, che era una dinamica tipica del Fascismo perché se non prendevi la tessera finivi al confino, non è una spiegazione sufficiente. La situazione che viviamo è più subdola: la censura oggi è difficilmente diretta. La sanzione è l’emarginazione lenta, un isolamento molto duro da sopportare. In quel libro ho anticipato molti temi. Nel 1982 ho scritto una lettera aperta a Claudio Martelli, all’epoca vice segretario del Psi, in cui gli dicevo che se non avessero cambiato rotta la collera della gente li avrebbe spazzati via.

Dieci anni prima delle monetine.
Sì, ma essere troppo in anticipo è uno svantaggio. Longanesi diceva a Montanelli e Giovanni Ansaldo: voi mi fregherete sempre perché capite le cose cinque giorni prima che accadano e io cinque anni prima. Nietzsche, saliamo nell’iperuranio, ha venduto 75 copie dello Zarathustra, che ha avuto poi una fortuna incredibile. Ma era in anticipo di troppi decenni.

Se avesse potuto essere un vincente?
Avrei voluto essere Giorgio Bocca, per la sua capacità di penetrare la realtà quando era giornalista d’inchiesta, e per la sua bravura quando firmava gli editoriali. Una volta diventare commentatore era un traguardo ambito e difficile, oggi fanno scrivere gli articoli di fondo ai ragazzini. La nostra educazione professionale è stata molto rigida.

Il peggior sbaglio o abbaglio in carriera?
Il giudizio su Scalfaro: l’avevo stroncato per il cattolicesimo oltranzista – il famoso schiaffo alla signora scollata – ma poi si è stra-riscattato respingendo le leggi vergogna quando è diventato Presidente.

Nella prefazione parla del suo narcisismo: come l’ha tenuto sotto controllo?
In me coesistono la pulsione verso il compiacimento e quella all’auto-svalutazione.

Tutte le volte che si paragona a qualche grande premette un “si parva licet”, ma poi lo fa.
Non mi censuro, però prendo delle precauzioni.

Calvino voleva essere ricordato come il più grande tra gli scrittori minori del Novecento.
Bella definizione. Io preferirei il più piccolo tra i grandi del Novecento.

Chi sono i grandi giornalisti del Novecento?
Malaparte su tutti. Poi Bocca e Montanelli, gradini sotto Biagi e la Fallaci. Ho avuto dei direttori grandissimi, ma spesso accade che siano sconosciuti perché erano persone che si realizzavano rendendo grandi gli altri. Di Scalfari non posso dire che sia stato un grande giornalista, ma un ottimo imprenditore dell’editoria. Oggi è bollito: in lui non sopporto la prosopopea.

All’inizio del De senectute Cicerone fa notare che tutti desiderano raggiungere la vecchiaia salvo poi lamentarsene. Lei non fa eccezione.
La vecchiaia è crudele e non è vero che l’alternativa è peggio. Caro agli dei chi muore giovane, dice Menandro. Mi meraviglio di aver raggiunto quest’età: mi sono parecchio strapazzato. Non vorrei raggiungere gli ottant’anni.

Qual è stata l’età dell’oro?
I quaranta. Avevo una donna con cui m’intendevo alla perfezione, il lavoro andava bene. L’età più faticosa sono i trenta, i venti sono ancora anni di spensieratezza. Il tempo è il padrone inesorabile delle nostre vite. A settant’anni tutto cambia. E non solo per le limitazioni fisiche. Il siparietto di Berlusconi 82enne con la ragazzina di Aosta fa pensare: a una certa età certe cose non si fanno e non si dicono, è di cattivo gusto. Ci sono delle cose che non ti senti più fare.

Affermazione sorprendente, fatta da lei.
Glielo dico così. La mia ex moglie mi ha rimproverato: tu sei sempre stato trasandato, ma adesso se vai in giro sciatto sembri solo un vecchio male in arnese. A me non è mai fregato nulla del vestire, ma ha ragione lei.

Non possiamo non parlare del Dizionario erotico. Quasi vent’anni dopo è ancora attuale?
Quel libro è un divertissment ma è anche più serio. Il dato di fondo non è cambiato, cioè che la donna è la grande protagonista della vita. Una consapevolezza che donne e uomini hanno perso. Ero a un evento del Salone del mobile e seduti vicino a me c’erano quattro ragazzi omosessuali. Li ascoltavo ed erano totalmente privi di forza virile, che ci può benissimo essere anche in un gay. Ma questo è il mood della società occidentale oggi. Una cosa che aggiungerei al Dizionario è che le donne non trovano uomini all’altezza.

Che vuol dire?
Che gli uomini sono infantili, non sanno fare scelte. L’uomo è fatto per prendere decisioni. Io ho provato un’esperienza omosessuale quando avevo 24 anni. Era un sollievo che decidesse tutto lui, da che film andare a vedere a dove andare in vacanza.

E poi?
È finita quasi subito perché non mi riuscivo a eccitare con il corpo di un uomo. Ma volevo togliermi quella curiosità. Sono sempre stato curioso di tutti i mondi borderline, e allora gli omosessuali erano ghettizzati.

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