Psicodramma assemblea

Pd, ultimo scontro al buio. E Renzi, nella conta, rischia

L’ex premier cerca di evitare il voto che può mandarlo sotto. Martina vuole la conferma fino alla data del Congresso

19 Maggio 2018

“Ciao, domani ce l’abbiamo il tuo voto?”. Matteo Renzi ieri ha chiamato i deputati, che sulla carta sarebbero suoi, ma che non è sicuro di controllare. In tutto, i suoi sarebbero 45 (su 67), mentre i senatori sono 33 (su 52). Stamattina all’Ergife il Pd si riunisce per l’Assemblea rimandata per 75 giorni, dopo le elezioni del 4 marzo. E per tutto il giorno si sono riunite le correnti e i caminetti, si sono incontrati gli sherpa (ovvero Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, per Matteo Renzi con Dario Franceschini e Maurizio Martina) alla ricerca di una mediazione, che per l’ennesima volta permettesse al partito di non decidere e di andare avanti con una diarchia: Renzi da una parte, Martina, con dietro Franceschini, Orlando, Emiliano, dall’altra. Ciascuna fazione ha consultato il suo pallottoliere. Incerto. L’Assemblea è stata eletta un anno fa, si è riunita da allora una sola volta (il 7 maggio 2017) e poi mai più. In origine, la maggioranza del segretario eletto, ovvero Renzi, era schiacciante e in gran parte composta di fedelissimi. Per eleggere un Segretario in Assemblea – anche di transizione – servono i 2/3 dei componenti.

E nessuno sa davvero su chi può contare. A partire dai 300 eletti dalle Assemblee regionali: soprattutto sui territori, Renzi dopo la frattura dovuta alla composizione delle liste, non sa più se tiene il partito. E così, per tutto il giorno tutti hanno cercato una mediazione per potersi consentire di “non decidere”. Il segretario dimissionario ha fatto sapere di essere pronto a rinunciare ad aprire la riunione (nonostante avesse già scritto un intervento) e di lasciare la scena a Martina. In cambio di un rinvio: il voto, la prossima volta. In un’altra Assemblea da fare a luglio. In questa, solo una discussione politica. La motivazione ufficiale: nessuno avrebbe capito un Pd occupato a litigare, mentre Lega e Cinque Stelle fanno il governo. D’accordo con lui erano anche Paolo Gentiloni, Graziano Delrio, Marco Minniti. Ma Martina, riunito con Orlando, Franceschini e i suoi dalla mattina, voleva una legittimazione. Non sicuro dei numeri si sarebbe accontentato anche di una legittimazione a metà: e dunque, un ordine del giorno che gli conferisse il mandato di convocare il congresso entro l’anno e lo confermasse Reggente come vice segretario. Troppo per Renzi, che Martina non vuole legittimarlo. Anche perché sullo sfondo, c’è un fatto: chi regge il partito fa le liste. Il governo sembra stia proprio per nascere, allontanando le elezioni, ma non si sa mai. Il rischio è troppo alto. E dunque, in serata ha detto di no.

Nel frattempo, Lorenzo Guerini continua a mediare. Ma Renzi in prima battuta proverà a far convocare a Matteo Orfini direttamente il congresso. Peccato che lo stesso Orfini, l’ultima volta che ci furono dimissioni di un segretario, disse che a norma di Statuto prima di convocare le assise bisognava verificare la possibilità di eleggere un segretario. I martiniani, dunque, chiederanno lo stesso trattamento e presenteranno Martina. A quel punto, Renzi potrebbe schierare Guerini. Tutto diventa possibile. Potrebbe, insomma, finire oggi la situazione di confusione che va avanti dalle elezioni. Che vede un Renzi dimesso, ma non formalmente, e tuttora segretario ombra. Tanto che 24 intellettuali cattolici vicini al Pd hanno firmato una lettera per chiedere al proprio partito di riferimento: “Ora decidi chi sei”.

Riavvolgiamo il film e torniamo al 4 marzo. “Renzi si dimette domani”. “Matteo ci sta pensando”, si rincorrevano le voci durante la notte. “Nel primo pomeriggio annuncerà le dimissioni”. Le voci si rincorrevano, continue. Mentre l’allora segretario era riunito con il Giglio magico. Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi in prima fila a chiedergli di non lasciare. “Ovvio che mi dimetto”, ma “solo dopo la formazione del governo”, diceva quando alla fine appariva di fronte alle telecamere, nervoso e sbrigativo. E poi, il giorno dopo, costretto dai colleghi di partito, faceva sapere: “Non ci sono. Ho consegnato le mie dimissioni a Orfini. Faccio il senatore di Scandicci”. In questa presenza/assenza ha continuato a mantenere il Pd in (semi) pugno, riuscendo più che altro a bloccare le iniziative altrui (come il dialogo con i Cinque Stelle). Da parte loro, tutti gli altri non sono mai voluti arrivare alla conta definitiva e risolutrice. Tanto è vero che la prima Assemblea, prevista il 20 aprile, è stata rimandata per volere di Renzi.

L’ex premier dunque oggi aprirà. Un intervento battagliero, in cui accuserà gli altri di aver vissuto in questi anni alle sue spalle. Poi, si potrebbe votare. Sarebbe la prima volta nel Pd dell’era Renzi che si arriva allo scontro frontale.

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