Le vere cause

Alitalia è riuscita nel paradosso: fallire per il crollo del prezzo del petrolio

Con il greggio in calo ha dovuto tagliare i prezzi, ma non ha potuto ridurre i costi ingessati da contratti sfavorevoli, come i derivati sul carburante. E così se l’è presa con i lavoratori

18 Aprile 2018

Per comprendere quanto poco si sa delle cause del dissesto di Alitalia, nonostante sia trascorso quasi un anno dal commissariamento, bisogna prendere a prestito una famosa affermazione di Winston Churchill: “È un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma”. Gli ultimi dati ufficiali sul vettore risalgono al bilancio del 2015, pubblicato nella primavera 2016. In seguito non è più uscito alcun numero, neppure dalla gestione commissariale. Il bilancio 2016, che avrebbe dovuto fotografare la crisi dell’azienda e identificarne le cause, non è stato presentato, come previsto dalle norme, ad aprile 2017, né allegato alla domanda di amministrazione straordinaria, come richiesto dalla legge Marzano. Pertanto si può ben dire che Alitalia sia stata la prima impresa di cui si ha notizia a portare i libri in tribunale senza tuttavia portarli.

Nel frattempo è trascorso l’anno 2017 e tutto il primo trimestre del 2018 e tra poche settimane sarà passato un anno dal commissariamento. Come è andata Alitalia negli ultimi nove trimestri? Quanto ha prodotto, speso, incassato e perso? E per quali ragioni ha perso? Perché l’azienda è andata così male in un periodo estremamente favorevole per il mercato aereo e per tutti i vettori? Nessuno lo sa, anche perché i pochi che eventualmente lo sanno non lo dicono. I commissari hanno appena pubblicato la loro “Relazione sulla cause di insolvenza” ma le cause non vi sono, si presume si trovino negli oltre due terzi della relazione coperti da omissis. Il mistero resta fitto.

In assenza di informazioni irrinunciabili, e contraddicendo il detto di Einaudi “Conoscere per deliberare”, il governo ha da subito indirizzato i commissari sulla strada di una rapida cessione, senza peraltro sapere se vi fossero acquirenti interessati e se quella che si metteva in vendita era un’azienda gestita malissimo ma potenzialmente profittevole oppure un caso irrimediabile. Non sapendolo neppure loro, gli acquirenti non si sono presentati o hanno chiesto uno spezzatino che porterebbe a esuberi e costi sociali e di finanza pubblica enormi.

Eppure le ragioni vere del dissesto sono state rivelate dai vecchi gestori in alcune pagine di un documento illustrato ai sindacati il 22 marzo 2017 nel corso della trattativa che si sarebbe conclusa con la vittoria del no al referendum. Esso riporta una versione non definitiva del conto economico 2016 dalla quale risulta una perdita industriale di 337 milioni. Il peggioramento rispetto ai 149 milioni del 2015 è dovuto per 158 milioni a riduzione dei ricavi e per 30 a incremento dei costi. Perché i ricavi sono diminuiti del 4,9%, per effetto della riduzione dei prezzi a fronte di passeggeri in lieve crescita, mentre i costi sono rimasti stazionari?

La risposta è in ciò che è accaduto negli altri grandi vettori. Nel 2016 Lufthansa ha ridotto i costi industriali per passeggero km del 5,4%, principalmente grazie al calo del carburante, e del 5,2% i proventi unitari. In sostanza ha trasferito ai suoi clienti, attraverso minori prezzi, i risparmi conseguiti e così han fatto gli altri vettori, low cost e tradizionali. Alitalia non è riuscita a ridurre i costi, ingessati da contratti sfavorevoli, ma ha dovuto lo stesso ridurre i prezzi a causa della concorrenza, peggiorando il disavanzo. È la semplice ma sinora non divulgata ragione del dissesto.

Nel 2015 Alitalia ha speso 721 milioni per il carburante, di cui 52 da perdite su contratti derivati di fuel hedging che scelte più oculate avrebbero evitato. Se i restanti 669 milioni si fossero ridotti nel 2016 nella stessa misura di Lufthansa, Alitalia avrebbe registrato un costo di 551 milioni, con un risparmio di 142 milioni sulla spesa effettiva (693). Riguardo ad altre voci di costo è la stessa Alitalia a quantificarne nella trattativa del marzo 2017 il disallineamento rispetto al benchmark delle altre compagnie. Sul leasing della flotta indicava un sovra-costo del 23% per i velivoli di medio raggio, del 41% per la flotta regionale e del 63% per il lungo raggio, con una media stimabile nel 36% che, applicata alla spesa del leasing 2016 dà luogo a 86 milioni di possibili risparmi. Riguardo alle manutenzioni riconosceva extra-costi pari al 19%, cioè 46 milioni di possibile risparmio sui 287 spesi; in relazione ai servizi di handling un extra-costo del 25% rispetto a un benchmark calcolato sui principali aeroporti che genera un possibile risparmio di 59 milioni. Infine i costi commerciali erano indicati nel 7,8% del fatturato, ma ritenuti riducibili al valore benchmark del 3,3%, con un risparmio stimabile in 125 milioni.

Se sommiamo i risparmi ottenibili tagliando gli extra-costi riconosciuti dalla stessa Alitalia arriviamo già a minori costi industriali annui per 316 milioni, quasi pari alla perdita industriale 2016 (337 milioni). Tuttavia questi risparmi salgono a 458 milioni se vi includiamo anche il taglio degli extra-costi sul carburante, una voce che la vecchia gestione aveva occultato, preferendo sostituirla con una ingiustificata richiesta di tagli del costo del lavoro. Con 458 milioni di minori costi il risultato industriale del 2016 sarebbe divenuto positivo per 121 milioni e così forse anche il bilancio finale. In sintesi, l’azienda già perdeva in passato per gli extra-costi e ha perso molto di più nel 2016 perché ha dovuto abbassare i prezzi come i concorrenti ma, a differenza loro, senza poter ridurre il costo del carburante. Alitalia è fallita per il crollo dei prezzi petroliferi di cui non ha potuto avvantaggiarsi. Questa è la spiegazione e da essa discende che sia stato un grande errore metterla in vendita prima di aver messo mano ai suoi rimediabili problemi.

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