Iran, sbagliano sia Trump che l’Europa

5 Gennaio 2018

Ha fatto bene Trump a incitare gli iraniani alla sollevazione? È stato pavido il silenzio dell’Europa? Sono stati, gli europei, paralizzati dal loro affarismo, da un riemergere, oibò, di antiamericanismo? Sommandosi al contrasto prodotto dalla dichiarazione Usa su Gerusalemme, le polemiche seguite alla sollevazione iraniana suggeriscono che gli occidentali affronteranno in modo diverso le eruzioni della grande crisi mediorientale. L’Atlantico pare destinato ad allargarsi.

C’è da dire che nell’occasione Trump si è limitato a interpretare a suo modo una tentazione cui gli occidentali hanno ceduto volentieri, sin dal tempo della rivoluzione ungherese (1956): incoraggiare la popolazione di uno Stato nemico a ribellarsi, lasciarle credere che non sarà abbandonata alla repressione, e poi dileguarsi nel momento decisivo. Il metodo ha i suoi vantaggi, non si rischia nulla e si fa bella figura, tanto più se il nemico mostra un volto sanguinario. Certo, molti insorti finiscono ammazzati, molti altri muoiono in galera, ma insomma, la libertà ha il suo prezzo, perbacco. Nel giugno del 2003, mentre a Teheran era in corso una veemente rivolta studentesca, il presidente George W. Bush incitò quei giovani a cacciare gli ayatollah, messaggio reiterato dalle radio americane che trasmettevano in Iran. La Guida Suprema ebbe così il destro per spacciare i ribelli per mercenari dell’America e per decapitare con 4000 arresti il movimento studentesco.

Dato il precedente non sorprende il fastidio col quale molti iraniani hanno reagito agli appelli di Trump ai dimostranti. Secondo alcuni siti della diaspora, dopo il “muslim ban” il presidente americano è impopolare in Iran: però i suoi inutili incitamenti hanno offerto alla Guida Suprema il pretesto per accusare i ribelli di intelligenza con il nemico. Se poi Trump applicasse all’Iran nuove sanzioni, come gli europei temono, i “falchi” di Teheran avrebbero il pretesto definitivo per montare l’atmosfera a loro più propizia – la patria sotto assedio, ogni critica al sistema una cospirazione.

L’Europa maggiore invece vuole credere che le rivolte convinceranno il regime ad aprirsi. È una scommessa ragionevole, salvo il fatto che in Medio Oriente la storia ha smesso di seguire percorsi lineari, prevedibili. Fino a ieri il conflitto che da vent’anni divide l’Iran era aspro ma regolato dalla comune volontà di non mettere a rischio il sistema, limite accettato dai due schieramenti: di qua i riformisti, espressione del ceto medio e del clero illuminato; di là il blocco di interessi costituito intorno alle Guardie rivoluzionarie, uno spionaggio tra i più maligni del pianeta, il clero conservatore e le boniad, le Fondazioni, che controllano parte dell’economia pubblica. L’Iran sceso in piazza negli ultimi giorni contestava entrambi gli schieramenti. È una terza forza di ceti non abbienti né politicizzati, privi di un progetto e di una guida, e appunto per questo potenzialmente eversivi, in quanto estranei ai codici che fino a oggi hanno garantito la sopravvivenza del sistema. Sono un altro Iran, o forse le avanguardie di una nuova Persia. Che potrebbe tornare nella strade se il regime non riuscisse a mitigare una crisi economica provocata dall’errore fatale agli imperi, e oggi per analogia alle potenze devote a politiche imperiali: l’imperial overstretching, ovvero una eccessiva estroflessione militare al di fuori dei propri confini.

Ma proprio in ragione di quella sovraesposizione troppo costosa e col tempo insostenibile, la sorte della crisi iraniana si intreccia ad altre e non meno imprevedibili crisi, dal Mediterraneo al Golfo persico.

Chi volesse mettere mano a un sistema così caotico nell’illusione di determinarne le dinamiche dovrebbe accettare un’alta probabilità di aumentare l’anarchia e di provocare effetti-boomerang. Eppure proprio questa pare la tentazione di Trump e di Netanyahu. Il giornalismo allineato in Italia plaude; su La Stampa Edward Luttwark addita l’esempio di Ronald Reagan, inteso come il presidente che mise alle corde l’impero sovietico. Si omette di ricordare che per uccidere un nemico agonizzante di suo (quando l’Urss invase l’Afghanistan tutti i suoi indici di sviluppo umano avevano già cominciato a decrescere) Reagan potenziò un nemico ben più pericoloso, il fondamentalismo devoto alla guerra santa.

Eppure l’inazione non può essere un programma. Se l’Europa non vuole assistere passivamente ai disastri degli apprendisti stregoni, deve dotarsi in fretta degli strumenti minimi per esercitare un’autonoma politica estera. Progetto ambizioso ma non impossibile, come già segnalano le truppe cammellate di Donald&Bibi strillando all’antiamericanismo.

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