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Rosatellum, centrini & affini: la carica dei partitini fai-da-te (e possibili stampelle)

Il Rosatellum fa gola a troppi. Già ventuno sigle sono pronte per la battaglia del 2018: sono colonnelli e peones in cerca di un seggio da B. e Renzi

Di Fabrizio d’Esposito
1 Dicembre 2017

Il centro non ha un centro di gravità. È l’ossimoro supremo della legislatura più trasformista della storia repubblicana, prossima ormai alla chiusura.

Democristiani, centristi, moderati, liberali, popolari, finanche repubblicani. Si scopre che il vituperato pentapartito stroncato da Mani Pulite non è mai morto. Tranne il Psdi, le sigle di Dc, Psi, Pri e Pli sono vive e vegete e saranno quasi tutte dalla parte di Silvio Berlusconi al giro delle urne del marzo 2018. La carica dei simboli è pronta, annunciata da tempo. Quando il paziente Sergio Mattarella fece le consultazioni, un anno fa a dicembre, per il governo di Paolo Gentiloni convocò al Quirinale ben ventitré delegazioni di partiti e movimenti, esclusi presidenti emeriti e presidenti delle Camere. A loro volta, le delegazioni erano spesso formate da singoli esponenti di più forze politiche. Un caos di nomi direttamente proporzionale all’aumento dell’astensionismo. Più la gente non vota, più nascono altri partitini.

A metà degli anni Ottanta, il vecchio Mariano Rumor, che nella Dc inventò i famigerati dorotei, se ne uscì con una frase memorabile: “Noi dorotei siamo come gli alberi della foresta amazzonica, più ne tagli, più ne crescono”. Ecco l’Homo Democristianus è questo. Ha una ricrescita generosa, in tutte le ere politiche. Gianfranco Rotondi, Lorenzo Cesa, Pier Ferdinando Casini, Angelino Alfano, Maurizio Lupi, Roberto Formigoni, Clemente Mastella, Paolo Cirino Pomicino, Ciriaco De Mita, Bruno Tabacci, Raffaele Fitto: letti di fila sembrano tutti democristiani dello stesso partito. Invece, ciascuno di loro ha un centrino, custodito gelosamente. Per sfruttare tutte le golose opportunità del Rosatellum: lo sbarramento al 3 per cento; le liste civetta; il potere di ricatto dei singoli notabili nei collegi uninominali, laddove sono forti, soprattutto al sud.

Il senso di marcia di questa moltitudine sopravvissuta a Prima e Seconda Repubblica pencola tra Renzi e Berlusconi, con una spiccata preferenza per quest’ultimo. Questione di carro. Del vincitore. Nel centrodestra ritornato affollato dopo anni di vacche magre si stanno allestendo due gambe centriste accanto a Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. La prima vanta in pancia addirittura il simbolo originale della Dc, l’antico scudocrociato, portato in dote da Gianfranco Rotondi, ex ministro ed eletto l’ultima volta nelle liste del Pdl. Rotondi è alla guida di Rivoluzione cristiana e dovrebbe radunare gli “amici” di Lorenzo Cesa dell’Udc, di Clemente Mastella del risorto Campanile dell’Udeur, con l’aggiunta di Cirino Pomicino, ’o ministro di andreottiana memoria, che in un’insalata democristiana non ci sta mai male.

Il ritorno della Dc sulla scheda elettorale dipende solo dai sondaggi commissionati da Berlusconi: se questa gamba si attesta ben sopra il 3 per cento, bene; altrimenti non se ne fa nulla. Che senso ha, ragionano Rotondi e i suoi, non raggiungere il quorum e trasferire tutti i voti alla coalizione? Non è meglio darli solo a Forza Italia in cambio di una manciata di seggi sicuri?

Dubbi, domande, calcoli che attraversano anche la seconda gamba centrista di destra, fatta da moderati e liberali. Qui l’iniziativa è di Gaetano Quagliariello, titolare del marchio Idea Popolo e Libertà, e dell’ex alfaniano Enrico Costa. In questo rassemblement dovrebbero confluire i conservatori di Raffaele Fitto (Direzione Italia), i liberali del vecchio Pli, gli energetici di Stefano Parisi (Energie per l’Italia), gli ex montiani di Scelta Civica con a capo Enrico Zanetti, infine i repubblicani dell’ex leghista Flavio Tosi. La metamorfosi dell’ex sindaco di Verona è sublime: da ex indipendentista ha messo le mani sul secondo simbolo più vetusto della politica: quello dell’Edera mazziniana e risorgimentale del Pri, comparsa nel 1895. E nell’attuale Pri c’è chi indica in Tosi il “nuovo La Malfa”. Che Paese meraviglioso!

Nei dintorni di queste due gambe filoberlusconiane si sta consumando il piccolo dramma degli alfaniani di Ap e dei verdiniani di Ala. I primi sono spaccati tra chi vorrebbe tornare da Berlusconi (Lupi e Formigoni) e chi invece desidererebbe un seggio sicuro da Renzi (Alfano). Più ermetica la posizione di Denis Verdini che da buon renzusconiano tratta ancora sui due tavoli una possibile collocazione. Ma il filone liberal-centrista non si esaurisce mai: in fila ad Arcore ci sono gli animalisti di Michela Vittoria Brambilla, i popolari di Mario Mauro e il neonato Rinascimento di Sgarbi, Tremonti e dell’ex cossighiano Naccarato.

Sul fronte opposto la confusione non è da meno. Anche perché le scissioni a getto continuo di Pdl e montiano hanno fatto proliferare sigle paradadaiste come i Civici e innovatori (montiani ortodossi) oppure l’oscura Democrazia solidale di Lorenzo Dellai. Il quale Dellai sta riorganizzando i centristi pro-Renzi insieme con il predetto Alfano, Ciriaco De Mita e Pier Ferdinando Casini, che da mesi si è auto-scisso dall’Udc di Cesa. La folta schiera di cespugli prosegue con il Centro democratico di Tabacci, cofondatore del Campo Progressista di Giuliano Pisapia; i Moderati del piemontese Giacomo Portas (eletto nel 2013 nelle liste del Pd); i radicali di Bonino e Della Vedova, ultimi arrivati con Forza Europa. In questa legislatura, infine, i democratici hanno pure ospitato una gloriosa rappresentanza socialista del Psi, che ha come segretario Riccardo Nencini, attuale viceministro del governo Gentiloni. Sono già ventuno sigle, senza contare autonomisti e partitini regionali. Altro che tripolarismo.

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