L’economia riparte #avanti verso la decrescita infelice

20 Agosto 2017

Persone di media cultura e non iscritte alle tifoserie si chiedono perché il dato Istat sull’andamento dell’economia (+1,5 per cento nel secondo trimestre 2017 sull’anno precedente) sia accolto con ridicoli eccessi di tripudio o di scetticismo. La prima spiegazione è la crescita economica “percepita”: il ricco e il povero hanno legittimamente idee opposte sullo stato delle cose. Poi c’è che l’economia, come le altre scienze umane, non è esatta: conosce solo il passato e non sa prevedere il futuro, non potendo verificare in laboratorio le sue ipotesi. Quindi non le si può applicare la massima del noto virologo Roberto Burioni (“La scienza non è democratica”), sacrosanta per quelli che misurano la magnitudo dei terremoti con le vibrazioni del proprio sedere. Ma cercare di convincere ex cathedra milioni di disoccupati che le ricette renziane stanno funzionando è peggio che inutile, è stupido. Gli economisti a gettone lo fanno solo per propiziarsi futuri incarichi pubblici.

Ciascuno di noi sa meglio del medico quanto male gli fa la testa. Ma solo il medico può dire perché la testa fa male, come curarsi e quando il dolore si attenuerà seguendo le sue ricette. Sul decorso dell’economia i medici onesti sono pochi. Tutti sappiamo quanto bene o male ci sta facendo il Pil qui e oggi, ma pochi opinionisti (e nessun politico) dicono dove esattamente ci troviamo e quale rotta stiamo seguendo se non siamo alla deriva. Non vi spaventate: se “più 1,5 per cento” non vi dice niente e non vi suscita reazioni o giudizi, non è colpa della vostra ignoranza. Più 1,5 per cento, in sé, non vuol dire niente: è una supercazzola esattamente come #avanti.

#Avanti verso dove? Buttate via le percentuali e autocostruitevi un navigatore onesto con le cifre assolute disponibili sul sito ufficiale Eurostat. Nel 2007 il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Italia è stato 1.687 miliardi. Poi è iniziata la crisi e il Pil è sceso fino a toccare il fondo nel 2013: 1.541 miliardi, 136 miliardi (8,6 per cento) in meno rispetto al 2007. Dal 2014 – per merito di Renzi, di Mario Draghi o della congiuntura internazionale, ampio dibattito – il Pil è risalito. Nel 2017, con il progresso dell’1,5 per cento, dovrebbe arrivare a quota 1.591. Dopo dieci anni siamo ancora sotto del 6 per cento, un centinaio di miliardi. Nel frattempo, il Pil dei primi 12 Paesi “sudditi” dell’Euro cresce da 9.590 a 10.074 miliardi, con un progresso in dieci anni del 5 per cento. Se l’Italia avesse tenuto il ritmo dell’Eurozona, il Pil 2017 sarebbe arrivato a 1.771 miliardi, 180 miliardi più del disastro che gli imbonitori festeggiano agitando “tesoretti” da 5-6 miliardi. Continuando a questo ritmo (#avanti), se tutto va bene torneremo al Pil del 2007 nel 2021-22, dopo 15 anni, e l’Europa ci avrà ulteriormente distanziato.

La verità è che ci stiamo impoverendo, e molto, sia in senso relativo sia in senso assoluto. I consumi delle famiglie italiane sono stati 985 miliardi nel 2007 e 937 nel 2016. Nei nove anni di crisi gli italiani hanno tirato la cinghia per circa 400 miliardi totali rispetto ai consumi 2007. Vuol dire 400 miliardi (6-7 mila euro a testa) di cibo non mangiato, medicine non prese, libri non comprati, vacanze non fatte. Lasciando da parte la Germania ricca e spietata, prendiamo i francesi che pure qualcuno considera i veri malati d’Europa: negli stessi anni hanno consumato 300 miliardi in più rispetto allo standard 2007. I cugini si sono scofanati 300 miliardi in più, noi 400 miliardi in meno. Dopo anni passati a prendere per i fondelli la “decrescita felice” di Serge Latouche, chi vince le prossime elezioni dovrà chiedere agli economisti a gettone di governare la decrescita infelice, anche per i suoi elettori felici che #abbiamovinto.

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