Non è durato poi molto il tempo dello streaming applicato alla politica (introdotto dal Pd di Veltroni nel 2008, utilizzato poi dai 5Stelle e infine, come sempre a rimorchio, dal Pd di Renzi). È bastato appena qualche anno di voyeurismo politico perché noi elettori-spettatori esausti e annoiati anelassimo a tornare a essere esonerati dallo spettacolo obbligatorio degli amplessi in direzione o dei preliminari in assemblea.
Senza rimpiangere le risse a uso dei videoelettori fra Bersani e i capigruppo M5S o fra Renzi e Grillo che, se si fossero visti senza telecamere, avrebbero potuto essere persino un po’ più sinceri. Diciamoci la verità: a parte contribuire a legittimare le mediocri performance dei nostri eroi in sede di dibattito fornendo loro una platea, le dirette web hanno modificato poco o niente le dinamiche relazionali tra noi e i nostri politici: la nostra reale possibilità di accesso alle dinamiche interne di un partito e delle sue correnti è rimasta esattamente la stessa.
Anzi, con lo streaming, quei pochi corpuscoli di verità presenti negli incontri prima che si decidesse di immortalarli sono stati sostituiti dagli show posticci di performer che si esibiscono sotto i riflettori a caccia di consenso. Ed ecco che la politica si confronta con l’ennesima cantonata di questi anni, l’ennesima trovata scenica studiata per legittimarsi negando se stessa. E si vede costretta a fare retromarcia e cambiare strada. Il tentativo di saziare le curiosità del cittadino con una sorta di YouPorn Politic che lo rassicurasse rendendogli visibile l’esplicitazione dell’atto è fallito.
La politica oggi si trova davanti una sfida tanto vecchia quanto nuova: dopo la pornografia dell’evidenza forzata, deve recuperare l’erotismo della rappresentanza, in cui l’equilibrio sottile tra ciò che può essere visto e ciò che non può esserlo deve tornare ad accendere il desiderio dell’elettore. Auguri.