La sinistra sta male, la supponenza no

2 Marzo 2017

Ho brindato con gioia insieme a Eugenio Scalfari che sull’ultimo numero de l’Espresso celebra il glorioso e sempreverde settimanale nel quale ho lavorato felicemente dieci anni sotto la geniale direzione di Claudio Rinaldi. E dunque, scrive il Fondatore “un sorso di sciampagna lo berrò questa domenica con tutti i nostri giornalisti, segretarie, commessi, e soprattutto lettori”. Per poi aggiungere: “Siete la parte più consapevole e responsabile, la migliore di questo Paese”.

Qui mi sono fermato un attimo a riflettere se per caso come antico frequentatore di via Po dovrei pure io sentirmi “migliore”. Oppure se avendo poi intrapreso la strada del Fatto Quotidiano questa medaglia mi sia stata revocata, come Napoleone faceva con gli ufficiali insubordinati.

Battute a parte, quella frase di Scalfari solleva un problema che riguarda non soltanto un giornale o un gruppo editoriale con le sue grandi firme, ma insieme quel vasto mondo che per comodità continuiamo a chiamare sinistra anche se della sinistra che abbiamo conosciuto oggi conserva ben poco.

Parliamo di quella peculiarità che per dirla in due parole viene chiamata: superiorità morale. Un concetto che è stato già ampiamente sviscerato da tre libri in particolare che tutti noi, migliori o presunti tali, dovremmo tenere sul comodino: Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso del migliore di Luca Ricolfi; I Sinistrati di Claudio Rinaldi; Sinistrati di Edmondo Berselli. Pubblicati tra il 2005 e il 2008, Silvio Berlusconi imperante, non potevano prevedere, nel decennio successivo, l’involuzione della specie.

Vale a dire: la sconfitta storica della sinistra, la sua trasformazione in un ibrido finalizzato soprattutto all’occupazione del potere, e di conseguenza l’avanzata spesso inarrestabile delle forze cosiddette populiste, al di quà e al di là dell’Atlantico. Così, mentre assistiamo a sommovimenti dalle conseguenze imprevedibili, la sinistra, soprattutto quella intellettuale, continua a cullarsi nel complesso del migliore, attribuendo le proprie disgrazie al complotto dei peggiori, di cui però la storia avrebbe inevitabilmente fatto polpette. Non è andata così.

Sotto questo aspetto il No che il 4 dicembre ha travolto Matteo Renzi è il frutto principalmente della sua insopportabile supponenza. Non c’era comizio o apparizione televisiva in cui le sue parole e la sua faccia non trasudassero superiorità: siamo la parte più consapevole e responsabile del Paese, perché non dovremmo vincere? A furia di rimirarsi beato allo specchio non si era accorto che attraverso la cosiddetta personalizzazione del referendum stava sulle scatole al sessanta per cento degli elettori e, sicuramente, a una percentuale più vasta di italiani.

Messaggio ricevuto? Niente affatto. Rieccolo due mesi dopo prendere a pesci in faccia nel Pd gli oppositori, spingendoli alla scissione sempre nella convinzione che i “migliori” resteranno con lui.

In un saggio apparso sul Foglio l’economista americano Nicholas Eberstadt, definito da Forbes “uno dei massimi demografi del mondo”, scrive a proposito della vittoria di Donald Trump che “qualunque risultato possano o non possano aver conseguito, le elezioni del 2016 sono state una specie di terapia choc per gli americani che vivono all’interno di quella che Charles Murray (politologo conservatore, ndr) ha notoriamente definito ‘la bolla’ (la barriera protettiva di prosperità e di gruppi autoselezionati che ha progressivamente separato la crème de la crème dal resto della società)”.

Conclusione: “L’elezione di Trump ha fatto da presa diretta su una realtà che non poteva più essere negata: le cose là fuori in America, sono ben diverse rispetto a quanto pensavate”. Chiedo allora rispettosamente a Eugenio Scalfari: per far sì che i migliori prevalgano, è sufficiente definire i 5Stelle dei populisti incapaci e i leghisti dei populisti razzisti, come leggiamo nei suoi scritti domenicali (e i loro elettori, nel migliore dei casi, degli sprovveduti)? Oppure che le cose là fuori in Italia sono bene diverse rispetto a quanto pensavamo?

Potremmo sforzarci di capirne le cause. O anche noi giornalisti, al sicuro nella nostra barriera protettiva autoselezionata, mentre le copie scendono, preferiremmo limitare il suffragio universale alla crème de la crème? Per risolvere il problema.

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