L’arma fine-di-mondo: se Renzi perde il signor Salini lascerà l’Italia

5 Ottobre 2016

Le dentiere gratis per gli anziani. L’abolizione del bollo auto, cartuccia che Silvio si sparò all’ultimo secondo contro Prodi. La cura per il cancro se si vincono le Regionali in Piemonte (sempre Silvio buonanima). E poi basta andare a sfogliare nell’album dell’ultimo ventennio per trovare prebende e mance, roboanti promesse, qui la pecunia qui il cammello, una specie di voto di scambio di massa. Per dire che Matteo è solo all’inizio, gli basta schioccare le dita ed ecco altri mirabolanti doni.

Il Ponte sullo Stretto, che era un simbolo del berlusconismo come il pupazzo Five, il biscione e le leggi su misura – una cosa diventata addirittura proverbiale per descrivere la polvere negli occhi che l’uomo di Arcore sapeva gettare – è diventata una nuova bandiera di Matteo. Con sponde politico-economiche notevoli: il signor Salini, che il ponte dovrebbe costruirlo, nel caso, dice che se vince il No potrebbe lasciare il Paese, nientemeno. Un portafoglio in fuga, insomma. È un’offerta specialissima: se comprate il Sì vi danno in omaggio l’Italicum e un ponte. Pacchetto completo.

Tra le notevoli trovate del partito-Renzi c’è anche questa: l’Armageddon economico, la narrazione tossica che se vincesse il No, i capitali scapperebbero via, nessuno investirebbe più, i grandi gruppi se la darebbero a gambe.

Altro che mobili all’Ikea e consegne di Amazon: vi monterete i comò da soli e dovrete camminare per comprare qualcosa, sempre se rimarrà della merce nei negozi. Terrorismo insomma. Ma come molte cose del renzismo, basta scostare la tenda e dietro c’è la panzana.

La sostituzione del Senato con una specie di dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali è venduta come il toccasana per l’insostenibile lentezza del nostro iter legislativo. Panzana grossa, perché invece qui le leggi si fanno eccome, e anche velocemente.

La Germania ne approva 144 all’anno (in media, dal ’97 al 2013), l’Italia 120, la Francia 91, la Spagna 45, la Gran Bretagna appena 42. Cade con questi numeri la tiritera del “non si decide”, recitata da uno che decide molto, e spesso da solo, e quasi sempre in fretta e male. Quanto alla diaspora dei capitali, che fuggirebbero via nel caso il premier perdesse il referendum sul premier, è bene ricordare come tentiamo di attirarli.

Un’elegante brochure del ministero dello Sviluppo da poco pubblicata, svela il mistero: rivolgendosi agli investitori stranieri, vanta con orgoglio il fatto che in Italia “il costo del lavoro è al di sotto della media Eurozona”.

E dunque altro che riforme, Sì, No, Senato in miniatura e velocizzare il Paese: chi viene qui a investire lo fa perché costiamo meno e ultimamente pratichiamo anche notevoli sconti sui diritti dei lavoratori.

Dunque siamo a questo: gran parte delle affermazioni che ogni giorno il presidente del Consiglio pronuncia nel suo Grand Tour per sostenere il referendum su se medesimo, sono presentate come dogma di fede.

Siamo lenti nel fare le leggi! Tutti annuiscono. Oppure si tratta di mesmerismi: il Pil previsto col burbanzoso ottimismo del bulletto (poi preso a ceffoni da Corte dei conti e Bankitalia), oppure le fantasiose architetture numeriche per dire che il Job Act ha funzionato e gli 80 euro pure: 30 miliardi distribuiti a imprese e cittadini che sul Pil hanno pesato zero (e basta andare a vedere i dati sulla stagnazione degli investimenti privati per capire che quei 20 miliardi ricevuti in dono con il Jobs Act le aziende non li hanno investiti per niente).

Basterebbero i fatti invece delle parole, insomma. Invece avremo un profluvio di parole, promesse, minacce, ricatti, il babau, l’uomo nero e il costruttore di ponti che se vince il No se ne va. E noi rimaniamo senza ponte. Gné gné.

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