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Referendum, superate le 130mila firme contro la riforma Nordio. E il governo (per ora) rinuncia al blitz sulla data

Il boom dell'iniziativa popolare fa saltare il piano di palazzo Chigi per convocare il voto già il 1° marzo, forzando la prassi costituzionale. Tajani: "Ne riparleremo a gennaio"
Referendum, superate le 130mila firme contro la riforma Nordio. E il governo (per ora) rinuncia al blitz sulla data
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Oltre 130mila firme in poco più di una settimana, quella a cavallo di Natale. Avanza di corsa l’iniziativa popolare per il referendum contro la riforma Nordio, lanciata da un gruppo di 15 giuristi e aperta dal 22 dicembre alle sottoscrizioni sul sito del ministero della Giustizia (qui il link: per accedere serve lo Spid o la Carta d’identità elettronica). La raccolta – partita da subito forte – ha avuto l’impennata decisiva nelle ultime ore, grazie agli endorsement arrivati dai leader dell’opposizione, in primis il presidente del M5s Giuseppe Conte e la segretaria del Pd Elly Schlein. L’iniziativa dei giuristi è perlopiù simbolica, perché la consultazione sulla riforma è già stata richiesta ufficialmente dai parlamentari di maggioranza e di opposizione. Ma la mobilitazione ha già raggiunto il primo obiettivo pratico, dichiarato esplicitamente dai promotori: spingere il governo a non forzare (per ora) la mano per anticipare il voto a inizio marzo. Contrariamente alle previsioni, infatti, il Consiglio dei ministri di lunedì – l’ultimo del 2025 – non ha deciso la data delle urne. Una retromarcia dell’ultimo minuto riconducibile al successo della raccolta firme, oltre che a una certa perplessità manifestata del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui spetta indire formalmente il referendum costituzionale, sulla base di una delibera del Cdm.

La questione della data è oggetto da settimane di un defatigante dibattito tecnico, con un nucleo però tutto politico. La prassi prevede che il governo, prima di convocare il voto, debba aspettare tre mesi dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale, avvenuta in questo caso il 30 ottobre. Entro quel termine, infatti, cinquecentomila elettori, cinque Consigli regionali o un quinto dei membri di ciascuna Camera potrebbero chiedere il referendum confermativo. I parlamentari l’hanno già fatto: le loro richieste – quattro – sono state approvate dalla Cassazione il 18 novembre. Anche i cittadini però – almeno secondo l’interpretazione seguita finora – hanno il diritto a depositare le firme, raccogliendole per tutto il periodo messo a loro disposizione dalla Carta, cioè fino al 30 gennaio. Quindi, considerati i tempi tecnici per la validazione da parte della Suprema Corte (massimo trenta giorni) la delibera del Consiglio dei ministri non potrebbe arrivare prima di inizio febbraio. E poiché la data va fissata con un anticipo tra i cinquanta e i settanta giorni, la consultazione non potrebbe tenersi prima di fine marzo (o più probabilmente ad aprile).

La maggioranza però punta ad accelerare i tempi per sfruttare l’attuale vantaggio del Sì nei sondaggi, scongiurando l’ipotesi di un sorpasso del No, già in forte rimonta. Così negli ultimi giorni il governo ha studiato l’appiglio “tecnico” per forzare l’interpretazione: in base alla legge sulla materia, la 352 del 1970, il referendum dev’essere indetto “entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza (della Cassazione, ndr) che lo abbia ammesso”. E un’ordinanza in questo caso c’è già: quella che ha dato il via libera alla richiesta dei parlamentari. Abbastanza, secondo palazzo Chigi, per procedere senza attendere la raccolta firme popolare. Il blitz era stato programmato – e annunciato ufficiosamente – per il Cdm del 29 dicembre, individuando le date di domenica 1 e lunedì 2 marzo. In extremis, però, il piano è saltato, probabilmente per l’impennata delle sottoscrizioni online unita a una valutazione di opportunità politica. La forzatura, infatti, avrebbe probabilmente compattato il fronte del No, aprendo la strada a strascichi giudiziari dall’esito incerto: i promotori della raccolta firme, infatti, avevano già manifestato l’intenzione di ricorrere al Tar contro l’eventuale delibera. La questione, però, potrebbe essere solo rimandata: per convocare il voto in anticipo il governo infatti ha tempo fino al 19 gennaio, quando scadranno i sessanta giorni dall’ordinanza della Cassazione. E il vicepremier Antonio Tajani, parlando ai cronisti alla Camera, sembra accreditare proprio questa ipotesi: “Ne parleremo all’inizio di gennaio. Abbiamo sessanta giorni, non credo serva la raccolta delle firme”, dice. Oltre centomila elettori, però, non la pensano così.

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