La storia di una giovane donna che dorme per strada nei giorni di Natale: una riflessione su chi vive ai margini
di Rosamaria Fumarola
Qualche sera fa, mentre andavo a fare la spesa, mi ha molto colpito una ragazza che nei pressi della stazione preparava un giaciglio con lenzuola e coperte all’aperto, per strada. È quella una zona nella quale non è difficile imbattersi in persone che cercano un ricovero di fortuna, senzatetto il più delle volte maschi, intenti a cercare il sonno sopra i cartoni, con indosso vecchi cappotti e coperte, spesso aiutati dall’alcool a trovare il coraggio di rimanere lì così, alla mercé di tutti, né in stato di veglia ma nemmeno dormienti.
L’incontro invece con la ragazza che preparava il giaciglio con lenzuola e coperte ad una manciata di giorni dal Natale è stato qualcosa di diverso. In primo luogo non si è trattato dell’incontro con un uomo, ma con una giovane donna, con i capelli di media lunghezza, che indossava una giacca e non appariva come una persona avvezza a dormire per strada. Non sono riuscita a guardarla in volto, ma le lenzuola erano di un arancione chiaro e apparivano pulite. Inoltre, mentre tutti i senzatetto tendono a rintanarsi, a creare cioè una nicchia che li protegga, questa giovane aveva sistemato le lenzuola stendendole a terra per tutta la loro lunghezza e lo faceva con cura, presente a se stessa, come se si trovasse nella sua stanza.
Ovviamente non mi sfugge che chiunque, da un giorno all’altro, possa diventare un clochard a causa di una crisi economica che colpisce tutti, ma distrugge i tanti che già vivono nella fragilità. Nulla tuttavia in lei appariva trasandato e la giovane pareva dedicare attenzione a tutto quello che stava facendo. Sono tornata a casa e alla ragazza non ho più pensato, almeno fino a ieri sera, quando ho dovuto portare il mio cane a fare la sua consueta passeggiata. Le strade erano completamente deserte e io seguivo Spike che indugiava più del solito, fino a quando non si è fermato e io mi sono guardata intorno. E così, a una cinquantina di metri da me, ho visto la ragazza di pochi giorni prima, stesa sul suo giaciglio, che sembrava dormire. Una ragazza – forse di poco più grande delle tante a cui ho insegnato il greco o la storia dell’arte in case calde e confortevoli – dormiva sull’asfalto.
Ho fatto pochi passi per andarle incontro. C’eravamo solo lei e io: una donna adulta e una ragazza stesa a terra a dormire. Lei non sapeva che avrei potuto farle una carezza, raccontarle una stupidaggine per farla sorridere, che c’era vicinissimo un mondo che poteva darle qualcosa, che doveva darle qualcosa. Ma lei lo aveva chiesto? Non lo sapevo. Vedevo quel corpo, in cui scorreva la forza della vita che tutto può essere e diventare, sguarnito della patente che siamo abituati a dare a chi abbiamo di fronte, patente che serve più a noi per sapere come comportarci che a lui e che lo inserisce in un contesto nel quale gode di alcuni diritti che tutti tacitamente riconosciamo. La ragazza invece era sola, nessuna rete le garantiva protezione affettiva o sociale, nulla le riconosceva una patente e questo bastava a tagliarla fuori nonostante l’età.
Non mi sono avvicinata, non le ho parlato e questo perché per larga parte della mia esistenza ho ritenuto doveroso fare e dare ad altri quanto loro mancava, senza essere stata tuttavia capace di aiutarli davvero a migliorare la propria condizione. Ma questo è parte di un vissuto personale che non a tutti interessa, uscendo dal quale ritengo doveroso concludere con una domanda, che riguarda il rapporto che riusciamo a instaurare con chi è fuori dalla competizione che la società ci impone: ignorarne l’esistenza, rimanere impermeabili alle loro storie, nasce da un’autentica indifferenza nei confronti delle loro vite o trae origine dall’intimo, magari inconscio convincimento che siamo più simili ad essi di quanto non appaia e che tenerli lontani ci aiuti non a dimenticarli, ma a non pensare a come anche noi, in fondo, siamo o potremmo essere?