Il capolavoro diplomatico dell’Ue passerà alla storia come il più clamoroso dei suicidi assistiti
di Francesco Valendino
C’è una scena, nei vecchi film di gangster, in cui il boss e il capoclan rivale si chiudono nella stanza del retrobottega per spartirsi i quartieri, mentre i picciotti che fino a cinque minuti prima si scannavano in strada restano fuori, al freddo, con la pistola in mano e l’espressione vagamente inebetita di chi non ha capito che la festa è finita. Ecco, quella faccia lì, oggi, è la faccia dell’Unione Europea.
Mentre Washington e Mosca apparecchiano il tavolo per la Yalta 2.0, ridisegnando i confini dell’Ucraina e le sfere d’influenza del prossimo decennio, a Bruxelles regna il silenzio imbarazzato dei “cornuti e mazziati”. Per anni, i nostri lungimiranti strateghi – da Frau Ursula von der Leyen al prode Josep Borrell (quello del “giardino” circondato dalla giungla, ricordate?) – ci hanno spiegato che bisognava immolarsi sull’altare dell’atlantismo più cieco, sordo e soprattutto muto. Ci siamo legati mani e piedi alla gestione Biden, appiattendoci su una strategia che prevedeva la “vittoria totale” e il crollo della Russia, senza avere un piano B, e nemmeno un piano A che non fosse dettato dalla Casa Bianca.
Il capolavoro diplomatico del Vecchio Continente passerà ai manuali di storia come il più clamoroso caso di suicidio assistito. Avevamo un vicino scomodo, certo, ma geograficamente ed economicamente complementare: la Russia. Invece di fare politica, cioè l’arte del possibile, e attrarla nella nostra orbita per usarla come contrappeso nel grande gioco tra Stati Uniti e Cina, abbiamo deciso di regalarla a Xi Jinping impacchettata col fiocco. Abbiamo creato il “Nemico Perfetto” per compiacere un padrone d’oltreoceano che ora, cambiato l’inquilino allo Studio Ovale, ci tratta per quello che siamo diventati: irrilevanti.
Donald Trump, che tutto è tranne che un sentimentalista, ha guardato i conti e ha fatto l’unica cosa che un imprenditore cinico farebbe: ha chiamato Putin. Senza passare per Bruxelles. Senza chiedere il permesso alla Nato. E perché avrebbe dovuto? L’Europa si è tagliata fuori da sola. Ha rinunciato alla sua sovranità energetica comprando gas liquefatto americano a prezzi da gioielleria, ha svuotato i suoi arsenali per una guerra per procura che non poteva vincere, e ha reciso ogni legame culturale e politico con l’Est, murandosi viva in una fortezza di sanzioni che hanno fatto più male a noi che a loro.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, tranne forse di chi ancora scrive gli editoriali sui giornaloni italiani lodando la “fermezza” dell’Occidente. La verità è che l’Occidente si è ristretto. Nelle bozze delle trattative che filtrano da Washington, l’Europa non è un interlocutore: è un oggetto. Si discute di confini, di neutralità, di garanzie di sicurezza tra superpotenze. A noi, molto probabilmente, toccherà l’onere di pagare la ricostruzione di quel che resta dell’Ucraina, mentre le aziende americane si prenderanno gli appalti e quelle russe le risorse del Donbass.
Avevamo l’opportunità storica di essere il ponte, l’ago della bilancia, la “terza forza” capace di dialogare con tutti. Abbiamo scelto di essere i maggiordomi di un impero che, quando cambia gestione, licenzia la servitù senza nemmeno il preavviso. Ora non ci resta che aspettare fuori dalla porta, sperando che alla fine del banchetto di Yalta ci lancino almeno le briciole. O un osso.