Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo: da che parte stare?
Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo, uno di quelli in cui nessuno vorrebbe trovarsi. Da una parte c’è un regime criminale, denunciato da anni per violazioni sistematiche dei diritti umani, con carceri piene di prigionieri politici, dissidenti e perfino ostaggi internazionali, come il nostro connazionale Alberto Trentini. Un potere autoritario che non riconosce il risultato delle elezioni quando le perde, come abbiamo visto nel 2024, e che ha provocato il più grande esodo migratorio della storia recente dell’America Latina.
Una cupola senza scrupoli, guidata da Nicolás Maduro, ha di fatto sequestrato un Paese ricchissimo di risorse, ma soprattutto ha sequestrato un popolo che, per la propria storia e la propria cultura, non si sarebbe mai immaginato in esilio. Oggi milioni di venezuelani vivono lontani da casa, spesso in condizioni precarie, spesso con un passaporto scaduto e un futuro sospeso.
Dall’altra parte, a fare da contraltare, c’è una potenza imperialista guidata da un presidente lunatico e vendicativo, che ha appoggiato senza esitazione il massacro del popolo palestinese, armando la mano di Benjamin Netanyahu. Un Trump misogino, egolatra, che usa i dazi come arma politica, che calpesta il diritto internazionale e si arroga il potere di decidere chi debba vivere o morire nel Mar dei Caraibi in nome della “lotta alla droga”. In mezzo, come se non bastasse, ecco il Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado (arrivata rocambolescamente ad Oslo) che, insieme a quello a Obama, è uno dei più divisivi degli ultimi decenni: per molti venezuelani è un simbolo di resistenza contro Maduro, per altri l’ennesima espressione di un’opposizione liberale, bianca, di élite, perfettamente compatibile con le agende di Washington.
E allora, da che parte stare? Dobbiamo davvero augurarci una invasione in stile boots on the ground – improbabile, ma non impensabile – degli Stati Uniti per rovesciare una dittatura sanguinaria? Oppure dobbiamo schierarci per riflesso automatico con chi si proclama anti-imperialista davanti alle telecamere e grida “gringo go home”, anche quando nei fatti ha trasformato il proprio Paese in una prigione a cielo aperto?
Il sangue versato per le ingerenze Usa in America Latina e nei Caraibi non è acqua passata: è memoria viva, è il ricordo dei golpe, dei desaparecidos, delle torture, delle riforme strutturali imposte col ricatto del debito. È la cicatrice delle dittature che ancora oggi segna i corpi e le biografie di milioni di persone. Ma se ci fermiamo qui, restiamo prigionieri di un antimperialismo di riflesso che spesso assolve, o minimizza, i crimini dei regimi che si dichiarano “nemici degli Stati Uniti”.
C’è poi una dimensione che fatichiamo ad ammettere: il nostro privilegio. Da Milano, Roma, Madrid o Parigi è facile romanticizzare le rivoluzioni altrui. Lo abbiamo fatto con Cuba, lo abbiamo fatto con il Nicaragua: bandiere, poster, slogan, magliette. Ma chi vive l’esilio, chi fa la fila per un permesso di soggiorno, chi cerca lavoro con un documento scaduto, chi porta addosso le conseguenze psichiche e fisiche della repressione raramente ha il lusso di perdersi nelle nostre categorie ideologiche. A Madrid, le esiliate e gli esiliati dal Nicaragua – fra cui figure come Gioconda Belli – raccontano cosa significhi vivere sotto Ortega e Murillo: criticare la dittatura non li trasforma automaticamente in fan di Trump. Allo stesso modo, criticare Maduro non significa consegnarsi mani e piedi al progetto imperiale statunitense. La realtà, ancora una volta, è più complessa delle nostre tifoserie geopolitiche.
Lo stesso vale per il Venezuela. Al netto delle nostre analisi da esperti della domenica, dovremmo cominciare da una domanda semplice: cosa dicono i venezuelani e le venezuelane? Se oggi fermassimo per strada, a Roma, Lima, Bogotá o Buenos Aires, una persona venezuelana in esilio e le chiedessimo cosa pensa di quello che sta succedendo, la risposta più probabile sarebbe che gli Stati Uniti ci stanno mettendo troppo ad intervenire. Possiamo non condividere, possiamo discutere, possiamo ricordare tutte le volte in cui l’intervento “salvifico” di Washington si è trasformato in tragedia. Ma non possiamo continuare a parlare sopra le voci di chi ha perso casa, lavoro, cittadinanza, futuro.
Questo post non offre soluzioni nette e definitive. Vuole essere, più modestamente, una riflessione aperta. Un invito a disinnescare il riflesso condizionato che ci porta a scegliere sempre e comunque “il nemico del mio nemico”, anche quando è disposto a sacrificare il proprio popolo sull’altare del potere. Un invito a mettere al centro le persone in fuga, i loro racconti, le loro ferite, prima dei nostri schemi ideologici. Perché se c’è una cosa che il Venezuela ci sta insegnando è che si può essere, allo stesso tempo, contro Maduro e contro Trump; contro la tortura e contro le invasioni; contro i narco-generali e contro i droni teleguidati dal Nord.
Forse, oggi più che mai, la vera scelta non è tra “regime sanguinario” e “impero”, ma tra la nostra comodità di spettatori e la responsabilità di ascoltare chi, da anni, non ha più il privilegio di voltarsi dall’altra parte.