Inverno demografico come condanna? Per l’occupazione c’è una via di uscita: aumentare la partecipazione di donne e giovani – L’analisi
Pubblichiamo un intervento di Matteo Jessoula, ordinario di Scienza Politica all’università degli Studi di Milano.
Mentre in Parlamento proseguono i lavori della Commissione d’inchiesta sulla transizione demografica, “gelo”, “inverno demografico” e più recentemente “degiovanimento” – talvolta accompagnati dal ritornello xenofobo della “sostituzione etnica” – sono da mesi al centro del dibattito pubblico. Declino della fertilità, incremento della quota di vecchi e “grandi vecchi” (sopra gli 80 anni), invecchiamento della popolazione non sono certo temi nuovi: le criticità connesse all’inversione della piramide demografica sono infatti nel radar di esperti, forze politiche e parti sociali dagli anni ’90. La novità consiste nell’imminente materializzarsi degli effetti di tale transizione.
Secondo il rapporto Cnel “Demografia e forza lavoro” (2024), nei prossimi dieci anni il numero di persone in età da lavoro (aggregato Istat 15-74 anni) sì ridurrà di circa 3 milioni, per poi accelerare fino a una perdita di oltre 8 milioni nel 2050. Da una diversa angolatura Natale Forlani, presidente dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, in audizione parlamentare stima che nel prossimo decennio andranno in pensione circa 6,1 milioni di occupati, che non potranno essere compensati dalle entrate nel mercato del lavoro di coorti giovani, numericamente più ridotte. Parallelamente, nei prossimi 25 anni la quota di over 65 sul totale della popolazione dovrebbe aumentare dal 25% al 34%, per poi stabilizzarsi, mentre la quota di over 80 quasi raddoppierebbe, passando dal 7,8% al 13,7% entro il 2050. La Ragioneria Generale dello Stato stima che, di conseguenza, la spesa pubblica per pensioni, sanità e non autosufficienza (long term care) aumenterebbe di 2,6 punti percentuali di Pil (dal 22,6% al 25,2%).
L’“inverno demografico” italiano suona come dunque una condanna: contrazione della forza lavoro e dell’occupazione, difficoltà nel reperimento della manodopera per le imprese, aumento dei costi per il welfare, riduzione di produttività e di crescita economica. Un declino inesorabile.
In effetti, se la transizione demografica è una realtà per tutti i paesi a economia avanzata, in Italia il processo ha velocità e intensità tali da rappresentare una sfida formidabile. Il governo Meloni reitera di voler puntare su politiche pro-nataliste, lungo la narrazione che “i figli, i bambini, sono vita e speranza, come i semi da piantare per far crescere una foresta”. Espandere le politiche di sostegno alle famiglie è di per sé una scelta politica condivisibile: i semi hanno però bisogno di tempo prima di diventare “foresta”. Un tempo che non abbiamo nell’affrontare le sfide poste dall’invecchiamento demografico: se infatti anche riuscissimo a rilanciare rapidamente il tasso di fecondità (1,21 figli per donna contro una media UE di 1,38), dovremmo comunque attendere oltre due decenni prima che i nuovi giovani adulti entrino nel mercato del lavoro.
Non c’è dunque soluzione alle drammatiche conseguenze economiche e sociali di un processo “slow moving”, e di fatto inarrestabile nel breve-medio periodo, come l’invecchiamento demografico? Paradossalmente, le tradizionali debolezze del mercato del lavoro italiano rappresentano oggi delle opportunità da sfruttare. I bassi tassi di occupazione per alcune categorie, soprattutto i giovani under 35 (tasso di occupazione al 34% nella fascia 15-29 anni) e le donne nella fascia 35-54 anni (tasso di occupazione 64%) – in entrambi i casi tassi di 14-15 punti percentuali inferiori alla media europea – lasciano infatti ampio margine per contrastare gli effetti dell’inverno demografico sull’occupazione. Le simulazioni incluse nel rapporto Cnel citato sopra, mostrano che, ipotizzando una ripresa del tasso di fecondità e una convergenza dei tassi di occupazione italiani verso l’attuale livello medio Ue, di fatto non si verificherebbe alcuna contrazione della popolazione occupata: l’espansione dell’occupazione tra donne 35-54 anni (+1 milione), giovani under 35 (+1,7 milioni) e, più limitatamente, lavoratori anziani 55-74 anni (+0,6 milioni) compenserebbe infatti integralmente le perdite.
Si tratta dunque di mobilitare il “potenziale” inutilizzato. Ovviamente, superare debolezze ultradecennali non è cosa facile, ma è essenziale provarci, attivando tutte quelle politiche nelle quali l’Italia investe ancora risorse troppo limitate: politiche di conciliazione famiglia-lavoro – specie servizi per l’infanzia e non autosufficienti – politiche scolastiche e formative, contrastando l’abbandono precoce e rafforzando i livelli di istruzione superiore, politiche attive del lavoro e per l’invecchiamento attivo, sullo sfondo del rilancio della politica industriale e per il Mezzogiorno, oltre che di un’efficace politica dell’immigrazione rivolta all’inclusione sociale degli immigrati.
Non c’è più tempo però: bisogna agire adesso, costruendo una coalizione sociale e politica capace di sviluppare una genuina “Agenda per un Nuovo Welfare”.