Lavoro

Ecco il vero politicamente scorretto: criticare il proprio posto di lavoro

Il caso a Caserta: Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione. Se il dissenso è il sale della democrazia, c'è chi concepisce le fabbriche come caserme

Cosa si può dire e cosa, al contrario, non si può dire nel dibattito pubblico? Negli ultimi anni l’ultradestra ha fatto passare l’idea che, tanto a livello internazionale, quanto a livello italiano, si sia imposta una forma di censura informale, il “politicamente corretto”. In sintesi, ci sarebbero opinioni, idee e parole che non possono più essere né pensate né proferite, perché invise ai “poteri forti”, pena l’emarginazione se non il silenziamento nel dibattito pubblico.

Fin qui siamo di fronte a una delle caratteristiche dell’ultradestra internazionale: spacciarsi per vittima, per quella “parte” schiacciata da una maggioranza di bigotti e “buonisti” quando, al contrario, il “politicamente scorretto” che professa è una sorta di nuovo mainstream, accolto e spesso ben retribuito, tanto dal potere politico quanto da quello mediatico. A sostenere la tesi della dittatura del “politicamente corretto” infatti sono solitamente personaggi che godono di enorme spazio mediatico sui principali canali mainstream, da quelli TV a quelli radio. E che, quindi, quelle idee e quelle parole le pronunciano con forza davanti a milioni e milioni di persone che le ascoltano quotidianamente.

Vannacci e Cruciani sono solo due degli esempi di un “politicamente scorretto” che si spaccia per minoranza vessata e che, al contrario, gode di piena cittadinanza, offerta tanto dal potere politico – un partito politico di governo come la Lega che consegna a Vannacci una candidatura prima e una vice-segreteria federale poi – quanto da quello mediatico ed economico (La Zanzara va in onda quotidianamente su Radio24, organo della Confindustria).

Questo non significa, però, che tutte le opinioni, idee e parole possano essere liberamente espresse. La censura esiste, solo che non risiede lì dove l’ultradestra vorrebbe indirizzare i nostri sguardi. Ci sono cioè ambiti in cui ognuna e ognuno di noi è considerato cittadina e cittadino e, in quanto tale, titolare di diritti che può esercitare in determinati luoghi: la propria casa, la strada, finanche i social network. Esistono però altri luoghi fisici in cui smettiamo di essere cittadini, in cui un diritto costituzionalmente garantito come la libertà di espressione troppo spesso non arriva: i posti di lavoro.

Non perché ci siano norme che vietano formalmente l’esercizio dei nostri diritti, sulla carta rimangono. Ma è come se la Costituzione formale si fermasse ai cancelli delle fabbriche e all’interno dei luoghi di lavoro vigessero altre leggi.

Il licenziamento di Michele Madonna, operaio della ex Jabil di Marcianise (CE), oggi TMA, e dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), testimonia proprio la distanza tra leggi formali e leggi “reali”.

Michele è stato licenziato il 24 novembre perché, sostiene l’impresa TMA, si sarebbe “interrotto il rapporto fiduciario”. A far venire meno la fiducia – termine scelto dal Vocabolario della lingua italiana Treccani come parola dell’anno 2025 – sarebbero state le dichiarazioni che Michele ha rilasciato in diverse occasioni (riportate nella lettera di contestazione dell’11 novembre), criticando la cessione dello stabilimento di Marcianise e dei suoi 406 dipendenti, già superstiti di precedenti spacchettamenti, dalla multinazionale statunitense Jabil alla piccola TMA. Un’operazione che una sindacalista della Fiom aveva così descritto: “È come voler far entrare un sottomarino in una scatoletta di tonno”.

Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione, osando criticare una cessione aziendale e avanzando dubbi sulla possibilità di tenuta sul lungo termine di produzioni e occupazione. Se il dissenso è il sale della democrazia, è evidente che c’è chi concepisce le fabbriche come caserme in cui l’unica espressione consentita è “signorsì signore”. Criticare l’impresa, ecco il “politicamente scorretto” che per davvero è sottoposto a censura e addirittura a licenziamento. E, guarda caso, è la libertà dell’operaio di criticare la propria azienda che non viene difesa dall’ultradestra che pure si sgola all’urlo “libertà, libertà, libertà”.

Essere oggi al fianco di Michele Madonna non significa solamente difendere la possibilità di un lavoratore di mantenere il proprio reddito e il proprio posto di lavoro; significa difendere un’idea di democrazia sostanziale e, al contempo, rifiutare quella di una democrazia formale che si arresta sulla soglia dei luoghi di lavoro. Significa rivendicare l’idea – questa sì “politicamente scorretta” – che le imprese non siano piccoli Staterelli in cui vige una sorta di Ancient Regime, un modello, cioè, in cui la volontà del padrone è paragonabile a quella del Re Sole, una volontà che si fa legge e che si impone al di sopra della Costituzione formale.

E, ancora, essere al fianco di Michele, così come di Pasquale Zeno – vittima di licenziamento disciplinare ad agosto, a pochi giorni dall’arrivo della nuova proprietà – e degli operai TMA (ex Jabil) che hanno ricevuto lettere di contestazione significa non arrendersi al destino di desertificazione industriale che un’intera classe dominante – di destra, centro, sinistra – ci regala da decenni come “destino manifesto” e che viene accompagnato da un’emigrazione che tra il 2011 e il 2024 ha visto partire dalla sola Campania addirittura 158mila giovani tra i 18 e i 34 anni (dati CNEL).

Martedì essere in piazza a Caserta per il corteo convocato da USB alle 11:00 significa riconoscere nelle parole e nelle azioni di Michele Madonna la difesa della libertà di espressione, della dignità dei lavoratori, del presente e futuro occupazionale di un intero territorio contro l’autoritarismo imprenditoriale e il rischio di un’ulteriore impoverimento produttivo che contribuirebbe a fare della nostra terra sempre più un “deserto di lavoro” laddove avevamo “terra di lavoro”.