Tutte le contraddizioni del Brasile (che la Cop30 non risolverà): la sfida contro povertà e crisi climatica frenata dalle scelte controverse in nome dell’export
Il Brasile che ospita la Conferenza delle Parti sul Clima ha molti volti e davanti ha diverse sfide che conducono a scelte controverse. È la determinazione delle comunità locali, l’arrivo davanti a Belém della Flotilla degli indigeni dell’Amazzonia, è la Cúpula dos Povos, il vertice dei popoli alternativo alla Cop 30, è la grande manifestazione con 40mila persone che attraversano la città chiedendo giustizia. Ma non bastano gli annunci sul fondo per le foreste tropicali per fare di questa la Cop delle foreste. Il Brasile è il presidente, Luiz Inacio Lula da Silva, che se la prende con i negazionisti (“Controllano gli algoritmi, seminano odio, diffondono paura”), ma è anche la sua difficoltà a staccarsi dalla produzione dei combustibili fossili. Nonostante un mix energetico tra i più puliti al mondo, il Paese è nono produttore globale di greggio ed è questa la realtà con cui bisognerà fare i conti una volta spente le luci della Conferenza delle Parti sul clima. Chi può opporsi ai piani di investimento della compagnia statale Petrobas? Può farlo il capo tribù Raoni Metuktire, principale leader indigeno del Brasile, ma per Lula, presidente di un’economia emergente con quasi 60 milioni di abitanti in stato di povertà, è un’altra storia. “Dio è brasiliano!” dichiarò nel 2006, di fronte alla scoperta al largo della costa brasiliana dei bacini petroliferi di pre-sal. Il ‘tesoro’ era ad almeno 5mila metri di profondità, sotto uno spesso strato di sale formato nel corso di milioni di anni. Certo, accadeva nove anni prima dell’Accordo di Parigi. Ma quando Lula è risalito al potere, Petrobas era la società al mondo che distribuiva più dividendi ai propri azionisti.
L’export, croce e delizia del Brasile
Quella scoperta ha reso il Brasile un importante attore nel mercato energetico globale, anche perché il petrolio pre-sal è un tipo di greggio di alta qualità, leggero e a basso contenuto di zolfo, caratteristica che ne facilita la raffinazione. Così, anche se il Brasile spinge, insieme ad altri Paesi, per mettere nero su bianco l’impegno per l’uscita dai combustibili fossili, Lula è accusato di ipocrisia, per aver autorizzato poche settimane fa le prime perforazioni esplorative di Petrobas al largo del Rio delle Amazzoni. L’obiettivo sono soprattutto le esportazioni, di cui il Brasile è da sempre schiavo. Non c’è solo il petrolio: zucchero, caffè, soia (Leggi l’approfondimento). E ogni volta le comunità locali hanno dovuto pagare un prezzo. Gli anni del governo di Jair Bolsonaro hanno segnato il Paese e l’Amazzonia. È stato al potere dal 2019 alla fine del 2022 e, anno dopo anno, l’estensione delle terre sottratte alla foresta pluviale è aumentata sempre più. Era rimasta al di sotto dei 5mila chilometri quadrati fino al 2017, con un minimo raggiunto nel 2013 (poco più di mille). Nel 2018 sono spariti 5mila chilometri quadrati di foresta, nel 2019 ne sono scomparsi più di 6mila, nel 2020 si è arrivati a 8mila e nel 2021 a più di 10mila. Il ritorno di Luiz Inácio Lula da Silva ha segnato un passaggio, ma il Brasile è ancora una potenza emergente: secondo l’Istituto nazionale di statistica quasi 9 milioni di persone sono uscite dalla condizione di povertà nel 2023, nella quale ancora oggi si trovano 59 milioni di abitanti, il 27,4% della popolazione.
Quel legame con l’agrobusiness
Allo stesso tempo, secondo il Rapporto annuale 2024 sulla deforestazione prodotto da MapBiomas, la perdita di vegetazione autoctona si è ridotta del 32,4% rispetto al 2023, ma lo scorso anno il Brasile ha comunque perso in media 3.403 ettari di foreste ogni giorno, 142 ettari l’ora. Di fatto, il pascolo rappresenta tuttora oltre il 90% di tutte le aree deforestate dell’Amazzonia brasiliana. Ad agosto scorso, per soddisfare la domanda (anche cinese) le autorità brasiliane hanno sospeso la moratoria che imponeva alle aziende di non acquistare soia da terreni deforestati in Amazzonia e che, dal 2006, aveva protetto circa 17mila chilometri quadrati di foresta. Ma la soia serve come mangime per gli allevamenti intensivi. In Brasile, in Cina e pure in Europa. Come soluzione per la decarbonizzazione dei settori hard-to-abate, poi, il Brasile punta sui biocombustibili. Tra i leader mondiale nella produzione e nell’utilizzo di biocarburanti, in particolare etanolo da canna da zucchero e biodiesel, il Brasile ha promosso, insieme a Italia, India e Giappone, l’iniziativa ‘Belém commitment for sustainable fuels’ che punta a quadruplicarne entro il 2035 produzione e uso globale. Solo che le colture destinate alla produzione di biocarburanti, occupano attualmente circa 32 milioni di ettari a livello mondiale (tolti all’agricoltura a scopo alimentare) e soddisfano appena il 4% della domanda energetica dei trasporti, emettendo più Co2 rispetto ai combustibili fossili, soprattutto per gli impatti indiretti di agricoltura intensiva e deforestazione. Alla Cop29 di Baku, il Brasile aveva annunciato di voler ridurre le emissioni tra il 59% e il 67% entro il 2035 (rispetto a quelle del 2005). Eppure quest’anno, su indicazione del governo brasiliano hanno ricevuto le credenziali per accedere alla cosiddetta zona blu (dove si svolgono i negoziati), anche dirigenti delle compagnie agroalimentari come il colosso brasiliano della carne la Jbs che, solo nel 2023, ha emesso più di 240 milioni di tonnellate di Co2 equivalenti, come raccontato dalla Bbc News del Brasile. Stesse credenziali ricevute, per inciso, da dirigenti di compagnie petrolifere come Petrobras ed Exxon Mobil e minerarie, come Samarco e Vale, la società responsabile (insieme a BHP) della tragedia di Mariana, nel Minas Gerais, oltre che del disastro della diga del Brumadinho del 2019 (Guarda il video del momento del crollo della diga). Sia Vale sia Jbs, poi, sponsorizzano la copertura di diversi media presenti alla Cop 30.
Rinnovabili in casa, combustibili fossili da esportare
“Sebbene il Brasile possa contare su un mix energetico tra i più puliti al mondo – spiega Giulia Signorelli, ricercatrice sulla decarbonizzazione del Think tank Ecco – con il 90% della generazione di elettricità proveniente da fonti rinnovabili (soprattutto idroelettriche) e una rapida espansione di eolico e solare, il Paese è ancora un grande produttore – il nono al mondo – ed esportatore di combustibili fossili”. Nel 2024 sono stati prodotti 3,358 milioni di barili al giorno, 1,29% in meno rispetto al record del 2023 (3,4 milioni) proveniente per oltre il 75% dai bacini petroliferi di pre-sal. Più della metà della produzione, poi, viene esportata, soprattutto in Usa e Cina. A febbraio 2025, il Brasile ha aderito all’OPEC+, il cartello dei Paesi produttori di petrolio. Attirando critiche da tutto il mondo. “Certamente è una contraddizione – spiega a ilfattoquotidiano.it Antonella Mori, responsabile del Programma America Latina dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) – ma, d’altro canto, la sfida di Lula è quella di dare una prospettiva di sviluppo a milioni di brasiliani. E, in un mondo che continua a chiedere petrolio, diventa complicato non esportarlo, rinunciando a una risorsa economica”.
I piani di Petrobas e l’autorizzazione a trivellare
La stessa ministra dell’Ambiente, Marina Silva, ha dovuto mettere da parte le sue preoccupazioni. Recentemente ha dichiarato che “il Brasile ha l’esperienza necessaria per esplorare in modo sicuro le proprie riserve di petrolio, riducendo le emissioni”. Secondo il bollettino dell’Agenzia nazionale brasiliana di petrolio, gas e biocarburanti, a luglio 2025 la produzione di greggio ha raggiunto un massimo storico di 3,958 milioni di barili al giorno, con un aumento del 22,5% rispetto a luglio 2024. Quasi il 90% della produzione arriva da giacimenti gestiti (anche in consorzio) da Petrobras (circa il 25% da quelli che ha in esclusiva). La compagnia statale prevede di investire 111 miliardi di dollari entro il 2029 per arrivare dagli attuali 4 milioni di barili equivalenti di petrolio al giorno a circa 5,2 milioni entro il 2030. La stragrande maggioranza arriverà dai giacimenti pre-sal. Il 20 ottobre scorso, Petrobras ha ricevuto il via libera dall’Istituto Brasiliano per l’ambiente per le perforazioni petrolifere esplorative nel bacino di Foz do Amazonas, a 170 chilometri dalla costa dell’Amapá e a 530 chilometri dal delta del Rio delle Amazzoni, nel cosiddetto Margine equatoriale. Una licenza che arriva dopo due anni di battaglie e dopo che l’Ibama aveva negato l’autorizzazione a causa delle mancate garanzie per la salvaguardia della fauna in caso di perdite di petrolio. La storia, però, l’hanno scritta le pressioni politiche, i ricorsi e le modifiche al piano di salvataggio della fauna. Insomma, Lula ha deciso che doveva andare così.
Le perplessità sul fondo per le foreste (che non conviene agli indigeni)
Alla Cop30 di Belém è stato il leader indigeno Raoni Metuktire, 93 anni e una candidatura nel 2020 al Premio Nobel per la Pace, a riaccendere la polemica sulle trivellazioni e sul piano per le grandi infrastrutture. “Questi progetti distruggono fiumi e terre e continuano ad avanzare” ha dichiarato il capo della tribù Kayapó. Per denunciare lo sfruttamento dei fiumi amazzonici, ma anche l’impatto dell’espansione del settore agricolo sulla foresta, una flottiglia composta da circa 200 imbarcazioni ha sfilato nello specchio d’acqua davanti alla città di Belém, segnando l’apertura del vertice dei popoli indigeni e dei movimenti sociali che si svolge in parallelo alla Cop30, come spazio di protesta e confronto. Quanto mai necessario, anche sulle soluzioni presentate dal Governo brasiliano, che ha lanciato la Tropical Forest Forever Facility con un fondo (gestito dalla Banca mondiale). Ma il primo problema è raccogliere e investire davvero fino a 125 miliardi di dollari provenienti da fonti pubbliche, private e filantropiche e, missione ancora più ardua, riprendere il controllo di un’area infestata dall’illegalità. Dopo aver ripagato gli investitori e i Paesi donatori, il resto andrà ai Paesi in via di sviluppo dotati di foreste. Secondo Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per decolonizzare la conservazione, il nodo principale è rappresentato dal fatto che il fondo “dipenderebbe dai profitti delle stesse aziende responsabili della distruzione delle foreste. Inoltre – sottolinea – solo il 20% dei suoi fondi verrebbe destinato ai popoli indigeni”.