Nei licei occupati ho visto un’idea di futuro. E mio figlio è rinato
Si è da poco chiusa l’occupazione del liceo romano Righi, al centro di decine e decine di articoli di stampa e servizi tv. Scaturiti sia da un’occupazione molto prolungata, quasi due settimane. Sia dai ripetuti attacchi di giovani vicini all’estrema destra, inquietanti e troppo poco stigmatizzati dal governo attuale.
Chiariamo: le occupazioni sono un’anomalia italiana, non ci sono altrove. Sono, in teoria, illegali, occupano un bene pubblico e fermano la didattica per molti giorni. Da questo punto di vista, il giudizio potrebbe essere solo negativo. Ma quello che ho vissuto, e che qui riporto semplicemente da madre di un ragazzo che ha partecipato intensamente a questa esperienza fin dall’inizio, racconta tutta un’altra storia.
Mio figlio non era riuscito finora ad appassionarsi alla scuola. Il primo anno di liceo è stato difficilissimo. D’altronde, vale per tutti, basta stare dentro i forum di genitori di adolescenti, luoghi di vera disperazione: alzarsi alle sei e mezza per fare sei ore di didattica frontale, con rientro a casa alle due e mezza inoltrate, con compiti e verifiche per il giorno dopo e pochissimo spazio per altro nella vita, è già uno schema faticoso per un quindicenne che sta crescendo in un mondo che fuori cambia radicalmente. La sua ansia verso le continue verifiche, i voti secchi, 4, 5, che fioccavano dal registro elettronico, neanche detti a voce – ormai siamo in preda a questo meccanismo disumano – lo scoraggiavano ogni giorno di più. Parlo di lui per parlare di centinaia di migliaia di ragazzi che vivono con una fatica estrema e spesso con esiti drammatici – abbandono scolastico, una piaga italiana, forse quella più grave – una scuola che purtroppo è rimasta simile a se stessa mentre intorno, appunto, tutto muta.
Rimasta uguale certamente non per colpa dei professori, che per uno stipendio risibile spendono la loro vita nelle didattica, nelle mille riunioni, ma anche – come ho riscontrato personalmente – in un impegno a cercare di aiutare i più fragili e chi restava di restare indietro con generosità. Anche i professori, però, si muovono all’interno di uno schema rigido e antico, che non funziona più forse neanche per loro, di sicuro non per ragazzi che vivono con i device in mano e che fanno fatica ad accettare una struttura che li vede quasi unicamente come studenti passivi.
Venendo dunque alle occupazioni. Quello che mi interessa qui è raccontare quello che a mio avviso, vedendolo dal di dentro, è stato un incredibile esperimento sociale, che ha portato all’acquisizione di competenze altre e importanti rispetto a quelle strettamente “cognitive”. Autogestire una scuola è una cosa complicatissima. Organizzare i turni, h24, controllare che non accada nulla, creare una didattica alternativa fatta di corsi su Gaza, sulle carceri, di educazione sessuale, sui femminicidi, di matematica e fisica (e di momenti ludici, perché no), gestendo tutto attraverso continue assemblee dove la decisione era presa non per maggioranza ma per accordo unanime.
Una macchina deliberativa incredibile, dal mio punto di vista, se penso che noi non riusciamo neanche ad avere la maggioranza ad una riunione di condominio che delibera su inezie. Una macchina ovviamente anche densa di valori, anche se politicamente orientati verso un lato, ovvero un antifascismo radicale di sinistra. Ho visto in questo esperimento, nonostante i limiti, vitalità, allegria, ironia, vita, una visione di futuro, contro un mondo dove ormai vige solo il consumo.
Personalmente, poi, ho anche visto mio figlio rinascere. In meno di due settimane è diventato un’altra persona, ha ritrovato la passione verso la scuola, che ora sente sua, che chiama “casa sua”. Ha trovato un nucleo di valori che prima non aveva. Facile, direte, ma ora tutto è finito. Non è proprio così perché questo è l’inizio di un percorso.
Dopo aver trovato una comunità e aver finalmente sentito la scuola come un ambiente che gli appartiene – perché la scuola è degli studenti, com’è giusto che sia – rientra con nuovo entusiasmo. E infatti quello che mi ha stupito in due settimane di proteste intensissime e continue di dozzine e dozzine di genitori contrari all’occupazione non è la critica all’occupazione stessa – legittima – ma il fatto di non riuscire a vedere dentro un atto sia pure illegale qualcosa che poteva rendere la scuola molto più appetibile, perfino desiderabile, per i loro figli (a nome dei quali costantemente parlavano, mentre la voce dei ragazzi assenti all’occupazione non si è mai sentita. Lo ritengo un peccato).
Insomma, altro che le non-riforme del ministro Valditara, che hanno il solo effetto di rendere la scuola ancora più avversa agli occhi degli studenti: se la scuola fosse fatta più dagli studenti, se le decisioni avvenissero in maniera più radicalmente partecipata, se la didattica potessere essere meno frontale, meno passiva; se gli studenti potessero realmente vivere la scuola come casa loro, e non come qualcosa di odioso da cui fuggire prima possibile, se lezioni si svolgessero non sempre chiusi in classe, con gli smartphone sequestrati, se si potesse cambiare la pratica dei voti e delle bocciature comunicate da pc (e forse persino i voti stessi), se i genitori facessero tutti un passo indietro e lasciassero parlare i propri figli, ho come la sensazione che la scuola cambierebbe drasticamente. E penso che, se la scuola cambiasse, forse non ci sarebbe più bisogno di occuparla. Anche perché, cambiata, la scuola potrebbe dare altre competenze a ragazzi che si troveranno a vivere in un mondo sempre più polarizzato, diseguale e violento. Dove la cultura e la teoria conteranno sempre ma anche, e molto, il coraggio, la capacità di agire, organizzarsi, protestare, resistere.
Per cambiare ciò che va cambiato e tutelare ciò che rischia di essere travolto e soppresso.
Ps: Mi è capitato di parlare con un ragazzo che non ha partecipato all’occupazione. Mi ha detto che senza lo stress della scuola è rinato, studiare con calma a casa, uscire con gli amici, non avere quella pressione micidiale. L’occupazione resta una cosa fatta da pochi e che forse esclude tanti, ma una scuola diversa gioverebbe di sicuro a tutti.