Un teatro che non sperimenta si inaridisce: il San Carlo di Napoli non deve rischiare
di Teresa Iarocci Mavica*
Qualche giorno fa, il nuovo Sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli ha rilasciato un’intervista per annunciare la firma del contratto e introdurre le linee guida della nuova gestione. Due frasi, nette e programmatiche, ne condensano lo spirito: “No alle sperimentazioni. Rafforzeremo la lirica classica”. Brevi, ma eloquenti: dicono molto del modello culturale a cui si ispira la nuova direzione e dell’idea di società che esso sottintende.
Poiché il teatro è sempre specchio del mondo che lo circonda, amministrarlo significa interrogarsi su come la comunità immagina sé stessa, su quali valori difende o contesta, su quale futuro intende costruire. In questo senso, la gestione di un teatro non è mai neutrale: riflette sempre una visione politica, culturale e antropologica. Le dichiarazioni del nuovo Sovrintendente, dunque, non fanno eccezione a mio avviso.
In quelle due frasi ad effetto, l’uso – così volutamente generico – del concetto di sperimentazione, in sottintesa antitesi con la tradizione, tradisce una manipolazione ideologica. Infatti, solo una lettura distorta può far percepire la sperimentazione come minaccia o caos, laddove essa è sinonimo di ricerca, innovazione, adattamento consapevole al reale. Al suo nascere, ogni tradizione è stata una sperimentazione, che, in seguito, ha avuto successo. Molto di ciò che consideriamo oggi tradizione è stata rivoluzione, rottura, coraggio di andare oltre. Il Rinascimento stesso, celebrato come apice della tradizione europea, fu una gigantesca sperimentazione culturale, artistica e scientifica, che non sarebbe stata possibile senza la riscoperta e l’innovazione del pensiero antico. La tradizione, dunque, non è immobilità, ma movimento sedimentato e rifiutare la sperimentazione significa condannarsi alla paralisi, ignorare le sfide del presente, abdicare al futuro.
Poiché è improbabile che la nuova direzione del più antico teatro d’Europa ignori tutto questo, è lecito pensare che quella strategia comunicativa nasconda intenti ben diversi e che sia esplicitamente dettata dal modello politico e culturale che si va affermando nel Paese. Viviamo una stagione nella quale il futuro spaventa: imponderabilità geopolitica, mutamenti climatici, rivoluzione tecnologica, crisi valoriale. In tempi di polycrisis agilmente guadagna consenso chi invoca il primato della tradizione come unica ancora di salvezza. “Basta esperimenti, torniamo alle radici”. Si declina così la fascinazione nostalgica che oggi attraversa molte società nel mondo e l’Italia eccelle nel raccontarsi che si stava meglio prima. Ma la nostalgia non è una strategia, tanto meno un progetto: anzi agisce per disinnescare la responsabilità del pensare e del fare.
Il futuro, invece, richiede coraggio, rischio, immaginazione. La politica del ritorno al passato ha sempre prodotto fallimenti nel corso della storia, portando repressione delle libertà individuali; impoverimento economico e arretramento culturale; esclusione sociale di chi non rientra nei canoni tradizionali. È stato così per le rivoluzioni culturali conservatrici, gli integralismi religiosi, le nostalgie fasciste o monarchiche. Glorificare la tradizione e demonizzare la sperimentazione significa chiudere le porte al nuovo, all’ignoto, negare il possibile e nessun futuro può nascere dalla difesa dello status quo. È, invece, la sperimentazione responsabile l’espressione di una società matura, capace di trasformare il proprio passato in strumento di rinnovamento, non in reliquia da venerare.
E tutto questo riguarda direttamente il San Carlo. Come una società che smette di inventare, anche un teatro che rinuncia a sperimentare si inaridisce, si ripete, si svuota. Anche per il teatro la tradizione è una risorsa da interrogare, non una tana in cui rifugiarsi, perché, senza apertura al nuovo, nessuna società e nessun teatro può sperare di sopravvivere.
Trovo, quindi, che si tratti di una scelta squisitamente politica: occorre la volontà di evitare lo scontro ideologico e promuovere un dialogo produttivo tra passato e futuro. Far credere che tradizione e sperimentazione siano incompatibili è un artificio retorico, un espediente manipolatorio. In realtà, esse sono dimensioni palesemente complementari e inscindibili: l’una alimenta l’altra.
Un teatro proiettato nel futuro è un laboratorio di sperimentazione, non un mausoleo del passato e, perciò, non può limitarsi a riproporre il repertorio classico. Ciò significherebbe eludere la necessaria riflessione sul proprio ruolo nella società contemporanea e futura, omettere di interrogarsi sull’evoluzione del linguaggio artistico, sulle nuove modalità di fruizione e di partecipazione del pubblico. Il linguaggio dell’arte è in perenne mutamento, e la lirica, per restare viva, deve necessariamente dialogare con la contemporaneità, integrando nuovi codici musicali, scenici e tecnologici. Le opere classiche affrontano temi universali, ma con linguaggi ormai lontani dalla sensibilità odierna, soprattutto dei giovani. Per coinvolgere un pubblico più ampio e diversificato, il teatro deve aprirsi a contaminazioni con generi musicali nuovi e autori viventi, affrontare temi attuali e sostenere giovani compositori, registi e librettisti, promuovendo una filiera creativa che garantisca la vitalità dell’opera e del teatro.
Le dichiarazioni del Sovrintendente vanno in direzione opposta e consolidano l’idea di un teatro elitario, chiuso e autoreferenziale, destinato a un pubblico anziano e sempre più ristretto. Così si allontanano le nuove generazioni, si rinuncia alla funzione sociale e formativa dell’arte, si nega al teatro la sua dimensione pubblica. Solo attraverso nuove narrazioni, capaci di rileggere criticamente il repertorio e di accogliere la produzione contemporanea, il San Carlo può tornare a essere un interlocutore autorevole nel dibattito culturale, un modello per l’Italia e per il mondo.
Per tutte queste ragioni, è necessario rivendicare una programmazione che sia autentica narrazione artistica, all’altezza del rango della città di Napoli e del suo Teatro. Poiché ogni scelta di programma è un atto politico, un gesto di responsabilità verso la comunità, Napoli ha il dovere e il diritto di vigilare perché si agisca davvero nel proprio interesse e affinché il San Carlo non diventi il monumento di un passato compiaciuto, ma il luogo vivo di una cultura che osa, che interroga, che inventa.
* appassionata sostenitrice delle arti, curatrice, specialista di Russia