Latina continua a vivere di simboli, perché il resto fa fatica
di Graziano Lanzidei
Latina è la città più giovane d’Italia, la più famosa delle città del Novecento. Ma fin dall’inizio – quando si chiamava Littoria – è stata costruita attorno ai simboli e alla memoria, sull’idea che doveva rappresentare. Sì, perché non bastava tirar su case e strade: bisognava inventarsi la nascita di un mito.
Nel 1932 la città viene fondata e poi inaugurata con atti politici e mitologici, con tanto di riti romani, fasci e tradizioni vere o inventate. Avrebbe dovuto essere la prediletta del Duce, incarnare la nuova civiltà redenta dalle paludi della vecchia Italia. Si cacciarono i contadini che già c’erano e si importarono dal Nord i nuovi italiani, quelli che si diceva fossero stati scelti tra i più operosi. E poi si è scoperto che erano solo persone che andavano tolte da una zona ‘calda’. Per preparare il loro arrivo si bonificò tutto: la terra, l’acqua, perfino la società. Una bonifica integrale, appunto. Un esperimento di modernismo reazionario, idea in voga nella Germania nazista di allora, con la differenza che qui ci mettemmo pure il sole, le spighe di grano e la retorica della terra redenta.
Poi la guerra finì, Littoria cambiò nome e diventò Latina. Ma il destino restò lo stesso. A guidarla non era più il Regime ma sempre lo Stato, con altri simboli: la Cassa per il Mezzogiorno, le fabbriche, la centrale nucleare di Borgo Sabotino. In trent’anni si passò dal fango all’atomo, e pareva un miracolo. Ma anche quella era una fede: nel progresso, nell’energia, nell’industria che avrebbe salvato tutti. Quando nel 1987 chiusero pure la centrale, si spense un sogno. Finita la Cassa, finiti i sussidi, finì pure la politica. E da allora Latina si è arrangiata. Dove non arrivavano più i piani statali iniziò ad arrivare la nostalgia: intitolazioni, busti e rievocazioni.
L’amministrazione Finestra volle ricordare i “bei tempi” con nomi e targhe, perfino dedicando i “Giardinetti” ad Arnaldo Mussolini. Non era solo nostalgia, no: era un modo di fare politica. Quando mancano i soldi e le idee, restano i simboli.
E oggi, che cosa cambia? Poco o niente. Nel 2025 la Commissione Cultura del Comune ha deciso che la Liberazione di Littoria, avvenuta il 25 maggio ’44, non merita una giornata cittadina. “Basta il 25 aprile”, hanno detto i consiglieri FDI in commissione. Gli storici portano prove, atti, fotografie, ma niente: la città fu liberata, sì, ma meglio non ricordarlo troppo. Strano però: per il Centenario della fondazione, con tanto di legge e sei milioni di euro stanziati, la memoria funziona benissimo. E in attesa che il Ministero della Cultura si decida a dar vita alla Fondazione, a Latina si rimuove la Liberazione e si rispolvera G. D’Annunzio con una targa di marmo, come se la storia fosse un catalogo da scegliere a piacere.
Intanto, fuori, nella città vera, bruciano le macchine nei quartieri popolari, si spaccia a cielo aperto, esplodono bombe davanti ai portoni e ogni tanto qualcuno ammazza qualcun altro. E la gente si abitua, come se fosse normale, come se tutto questo non c’entrasse con la politica ma con il destino. Tutto questo diventa rumore di fondo, mentre l’attenzione resta sulle cerimonie. Si continua a vivere di simboli, perché il resto costa fatica.
E quando si parla di sviluppo, il copione è lo stesso. Latina e Frosinone sono state escluse dalla nuova ZES, la Zona Economica Speciale. Dicono che è colpa dei parametri europei, che Roma fa media e alza gli indici, che il Lazio non è “regione in transizione”. Sarà. Ma intanto Umbria e Marche — più ricche di noi — ci sono dentro. E il sud del Lazio, che pure è pieno di aree di crisi complessa, resta fuori. Non è solo una questione tecnica: è che Latina non ha mai avuto una voce unitaria, né un peso politico vero.
Quando c’era da farsi sentire, nessuno ha parlato. Quando la decisione è definitiva, tutti a lamentarsi, a scrivere comunicati e interrogazioni. E così, mentre altrove si progettano autostrade, porti, zone industriali, qui si discute ancora se la Roma–Latina si farà o no. Ogni governo la promette, ogni governo la rinvia. Nel frattempo, le merci viaggiano altrove, gli investimenti pure, e la città resta al palo, con la scusa che ‘Roma assorbe tutto’. No, Roma non assorbe: Latina non reclama. E quando non reclami, ti scordi pure che potresti avere diritto a qualcosa.
E così, tra autostrade mai fatte, treni veloci che non si fermano e porti che non esistono, Latina resta ai margini. È come se dopo la bonifica e il nucleare non fosse rimasto più niente da costruire. Solo parole, simboli e qualche inaugurazione.
L’errore non sta nell’avere dei simboli, ma nel continuare ad avere sempre gli stessi: i primi dodici anni della città. Latina si ricorda di essere stata fondata ma non di essere stata liberata. Parla del passato, non decide del futuro. È una città che si specchia nei marmi del mito, ma non riesce a trasformarli in politiche. E allora sì, forse è vero: Latina è ancora prigioniera dei suoi simboli. Perché è difficile rinascere davvero, quando ci si ostina a vivere nel racconto di chi ti ha inventato.