Quei “vestiti di plastica” che indossiamo mettono a rischio non solo l’ambiente, ma la nostra salute
di Marevivo
Indossiamo plastica e non lo sappiamo. E così mettiamo a rischio oltre all’ambiente anche la nostra salute. Gli indumenti in poliestere, nylon, acrilico, elastan, o lycra sono tutti realizzati con materiali derivati dal petrolio che non solo inquinano provocando notevoli emissioni di CO₂ durante la produzione e lavorazione, ma rilasciano anche microfibre che, disperdendosi nell’acqua con i lavaggi e nell’aria, finiscono per entrare anche dentro di noi. Studi recenti (ONU Ambiente, EEA, OMS 2024-2025) segnalano che questi frammenti possono accumularsi nei tessuti umani e provocare infiammazioni, stress ossidativo e disturbi endocrini.
Ma non è tutto: il rischio riguarda anche il contatto diretto di questi tessuti con la pelle. I materiali plastici non sono inerti e le microfibre possono penetrare nel nostro organismo, rilasciando additivi e composti tossici. Il pericolo è maggiore negli indumenti sportivi o tecnici, spesso indossati a lungo e a contatto con le parti intime. A questo si aggiungono le sostanze chimiche impiegate per colorazioni e trattamenti, come i PFAS, usati per rendere i tessuti idrorepellenti o antimacchia, oggi sotto restrizione da parte dell’UE. Oltre il 60% dei tessuti prodotti nel mondo è sintetico e ogni lavaggio può liberare fino a 700.000 microfibre. Ridurre l’esposizione a microplastiche, microfibre e sostanze persistenti è ormai una priorità di salute pubblica e ambientale.
Chiediamo al prof. Antonio Ragusa, Unità di Ostetricia e Ginecologia, Ospedale di Sassuolo, se davvero i vestiti che indossiamo possono nuocere alla nostra salute: “Sì. Oggi la maggior parte dei capi è composta da fibre sintetiche (poliestere, acrilico, nylon) derivate dal petrolio. Questi materiali rilasciano micro e nanoplastiche non solo quando li laviamo, ma anche mentre li indossiamo, per sfregamento e abrasione. Le particelle possono disperdersi nell’aria e venire inalate o depositarsi sulla pelle ed essere assorbite dal corpo. Oggi sappiamo che sono presenti nei polmoni, nel sangue, nella placenta, nel liquido amniotico e persino nel cervello”.
Le conseguenze, soprattutto quelle a lungo termine, sono ancora oggetto di studio, ma esistono già ricerche su possibili conseguenze per la salute umana. “Le micro e nanoplastiche non sono inerti – spiega il prof. Ragusa – Possono quindi causare infiammazione, stress ossidativo, alterazioni endocrine e immunologiche. Inoltre, veicolano additivi chimici, quali coloranti, ritardanti di fiamma, plastificanti, che amplificano il rischio. In modelli animali si osservano danni alla fertilità, al metabolismo, allo sviluppo neurologico e persino neoplasie”.
Il legame causa-effetto tra l’indossare fibre sintetiche e la possibilità che questo favorisca l’insorgenza di neoplasie è però ancora tutto da dimostrare. “La parola chiave è prudenza – sottolinea il prof. Ragusa – Le evidenze direttamente sul rischio cancerogeno nei consumatori che indossano capi sintetici sono ancora emergenti, ma i meccanismi e i dati indiretti sono convincenti. Da un lato, le micro e nanoplastiche possono promuovere processi alla base della carcinogenesi, quali infiammazione cronica, stress ossidativo, danno al DNA, disregolazione immunitaria, come mostrano alcune ricerche recenti. Dall’altro lato, le fibre fungono da veicolo per additivi e finissaggi tessili con profili di rischio oncologico: PFAS, idrorepellenti associati a tumori del rene e del testicolo a elevate esposizioni, catalizzatori come l’ossido di antimonio nel poliestere classificato IARC 2B (possibile cancerogeno, e coloranti azoici che possono liberare ammine aromatiche cancerogene a contatto con la pelle e il microbiota cutaneo”.
Inoltre, vi sono segnali da contesti occupazionali: nei lavoratori del ‘nylon flock’ sono stati ad esempio descritti eccessi di adenocarcinomi polmonari e interstiziopatie correlate all’esposizione a microfibre. “Questo però non significa che ogni capo sintetico causi tumori, ma che l’esposizione cumulativa a microfibre e ad alcuni additivi tessili può aumentare, nel tempo, il rischio attraverso vie biologicamente plausibili. Il principio di precauzione e la giustizia ambientale qui contano” conclude il prof. Ragusa.
Per limitare i possibili effetti dannosi delle fibre sintetiche occorre ridurne l’uso e preferire tessuti naturali come cotone biologico, seta, lana o lino, sebbene più costosi. Qui emerge un tema di giustizia sociale: chi ha risorse può scegliere materiali meno impattanti, mentre chi ha redditi più bassi resta confinato nel fast fashion, dominato dalle fibre sintetiche. Con la campagna #StopMicrofibre, dal 2019 Marevivo sensibilizza sull’inquinamento marino causato dal lavaggio dei tessuti sintetici, principale fonte di microfibre nei mari, dove ogni anno ve ne finiscono oltre 500.000 tonnellate, pari a 50 miliardi di bottiglie di plastica. La consapevolezza resta la vera arma per cambiare rotta.