Hamas e la resa dei conti nella Striscia con i clan rivali. Le ipotesi sul disarmo del gruppo islamista: condizioni e scenari
Iniziata la prima fase del rilascio degli ostaggi israeliani ancora in vita, nonché quello dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane, in diverse aree della Striscia di Gaza da almeno una settimana vanno avanti dei durissimi combattimenti: non più tra Forze armate israeliane e movimenti armati palestinesi, o perlomeno non direttamente. L’ultimo a farne le spese, nonché l’ennesimo tra i giornalisti gazawi, è Saleh Al Jafarawi, noto sui social media col nickname di “Mr Fafo”, rimasto vittima a Gaza City di decine di proiettili nel corso di uno scontro a fuoco tra forze della sicurezza interna di Hamas e membri del clan locale dei Doghmush, che secondo diverse fonti locali sarebbero i responsabili diretti della sua uccisione. Al Jafarawi era già miracolosamente sopravvissuto al bombardamento israeliano dell’ospedale al Nasser, ed aveva già perso decine di famigliari.
Con l’avvio dell’arretramento, più che il ritiro, delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza, diversi clan locali gazawi – nella Striscia circa il 20% della popolazione ha origini beduine, con almeno una cinquantina di clan locali – hanno lanciato delle offensive o ingaggiato scontri con i circa 7000 miliziani e funzionari della sicurezza di Hamas dispiegati sul territorio, dando il via a quella che appare come una resa dei conti interna. Alcuni, se non la gran parte di essi, sarebbero stati addestrati e sostenuti dalle stesse Idf, che in alcune occasioni avrebbero fornito anche una forma di “copertura” aerea con alcuni raid sui miliziani di Hamas impegnati negli scontri.
Uno dei principali è senza dubbio il citato clan dei Doghmush, attivo nei quartieri di Tel Hawa e Sabra, a Gaza city; poi c’è il clan Al Mujaida, con base a Khan Younis, allineato ad al Fatah, storicamente ostile ad Hamas, che già lo scorso 3 ottobre aveva perso decine di uomini nel corso di un raid di Hamas, che a sua volta avrebbe riportato perdite; a Khan Younis opera anche il clan Khanidak, nonché in particolare gli uomini guidati da Hossam Al Astal: accusato di aver partecipato all’uccisione di un membro di Hamas in Malesia nel 2018, cacciato dai servizi legati all’ANP, Al Astal nei giorni scorsi ha anche rilasciato una intervista al Times of Israel, nella quale ha promesso di “combattere Hamas fino alla sua scomparsa”, nonché ammesso candidamente di aver ricevuto “sostegno da Israele, alcuni paesi arabi ed europei”. Nell’area di Shujayya, a Gaza city, è attivo un altro clan legato ad Al Fatah, cioè il clan Khalas, anch’esso accusato di ricevere sostegno operativo – con raid mirati di supporto – e armi dalle IDF.
Un’altra formazione impegnata in scontri con Hamas – ma non è chiaro quanto sia “integrata” nelle altre formazioni – è poi quella denominata “Forze popolari”, e guidata da Yasser Abu Shabab, ex carcerato, a capo del clan omonimo nella tribù dei Tarabin, attiva nella città meridionale di Rafah: gli uomini di Abu Shabab, che nei mesi scorsi erano stati informalmente incaricati dalle stesse IDF di “proteggere” i convogli umanitari in ingresso nella Striscia, sono accusati di averli saccheggiati, nonché di ricevere l’aperto sostegno delle stesse IDF, per rafforzare la loro presenza in aree in cui Hamas è meno radicata. La stessa Tel Aviv ha ammesso in passato di aver “attivato” clan locali nemici di Hamas, senza far nomi, ed alcune fonti israeliane indicano che Abu Shabab abbia ricevuto armi leggere – sequestrate ad Hamas – dalle IDF, oltre a coordinarsi con il citato Hossam Al Astal (secondo l’ammissione di quest’ultimo). Il vice di Abu Shabab sarebbe inoltre Ghassan al Dahini, con un passato nella formazione jihadista del Jaish al Islam. Che Israele stia tentando di ripetere l’operazione svolta durante la guerra civile libanese (1975-1990), con il sostegno a decine di gruppi di mercenari ed in generale a milizie anti palestinesi?
Va ricordato, in ogni caso, che i gruppi salafiti e quelli takfiri tendono storicamente ad essere ostili ad Hamas, di cui non dimenticano la derivazione dalla Fratellanza musulmana. Quando in Egitto nel 2013 andò in scena il colpo di stato con cui il presidente Al Sisi riprese il controllo del paese, arrestando i leader della stessa Fratellanza, i salafiti di Al Nour si schierarono con Al Sisi, e contro la Fratellanza. Nel 2016, il quattordicesimo numero di Dabiq, la rivista dell’Isis, mise in copertina lo stesso ex presidente egiziano Mohammad Morsi, dei Fratelli musulmani, accusando lui e il suo movimento nientemeno che di apostasia – per diversi motivi di matrice dottrinale, e in particolare per aver “accettato” il gioco democratico e aver corso e vinto le elezioni di qualche anno prima.
Non è ancora chiara la portata di questi scontri in diverse aree della Striscia, come non è chiaro quali conseguenze possano avere sulla tenuta di breve e medio termine degli equilibri interni gazawi. Appare però credibile, in relazione al Piano di Trump che chiede esplicitamente il disarmo di Hamas, ciò che nei giorni scorsi hanno riferito una serie di membri del gruppo islamista, tra cui Moussa Abu Marzouk, secondo i quali il disarmo è “una linea rossa” e non è accettabile senza un accordo che preveda il ritiro completo delle Idf ed il “riconoscimento dei diritti nazionali palestinesi”. Lo stesso Abu Marzouk ha poi riferito ad agenzie turche che Hamas potrebbe consegnare le sue armi ad un futuro Stato Palestinese, sovrano e riconosciuto internazionalmente (in primis da Israele), e nel quale Hamas non debba necessariamente avere un ruolo politico di primo piano – che d’altronde non gli è mai interessato in quanto tale ma solo in funzione della “copertura” politica ai propri armamenti.
E’ possibile che il gruppo islamista accetti, nel corso del tempo, una smilitarizzazione graduale e parziale, cioè che si concentri su certi tipi di armi pesanti e offensive, come i missili a corto e medio raggio. E’ però da escludere, al di là dei rapporti con Israele, e a maggior ragione in un contesto di conflitto civile latente, come quello di questi giorni, che Hamas accetti di deporre le armi – soprattutto quelle leggere, e/o adatte alla guerriglia urbana – senza aver ristabilito e rafforzato un predominio interno, senza la sicurezza che il cessate il fuoco sia sostenibile nel tempo, e senza la garanzia che la futura fase di transizione sia affidata a soggetti palestinesi, che guidino l’embrione di Palestina al di fuori dell’occupazione.