Piazze per Gaza, perché è un errore giudicare un movimento sociale dai suoi membri marginali
di Simone Millimaggi
Mi trovo a considerare la natura della partecipazione collettiva e la fallacia epistemica insita nel giudicare un fenomeno sociale complesso attraverso il campione arbitrario e spesso caricaturale dei suoi partecipanti più marginali o meno eloquenti. Riconosco in questo approccio critico una forma di riduzionismo che, sebbene psicologicamente rassicurante per chi lo pratica, tradisce una fondamentale incomprensione della dialettica storica e sociale.
La mia analisi muove dall’assioma che qualsiasi movimento di massa, in quanto fenomeno organico e non ideale, è per sua stessa costituzione eterogeneo. Esso non è un monolite filosofico, bensì un ecosistema di intenzioni, di consapevolezze stratificate e di motivazioni spesso in conflitto tra loro. La “coscienza” del movimento non è la somma algebrica delle coscienze individuali, ma emerge da esse come una proprietà sistemica nuova e irriducibile. Pertanto, isolare la dichiarazione di un singolo partecipante, magari colto nel suo momento di massima fragilità argomentativa, e elevarlo a sineddoche dell’intero corpo sociale, equivale a confondere una foglia, secca e trasportata dal vento, con la foresta da cui proviene.
È innegabile, e storicamente documentato, che le correnti della storia siano mosse da una moltitudine di attori le cui ragioni personali spaziano dall’adesione ideologica più rigorosa alla spinta esistenziale più immediata e inarticolata. Il sans-culotte che marciava verso Versailles era forse animato dalla lettura di Rousseau o da una fame concreta? Il suo contributo alla dialettica storica è forse meno reale, meno costitutivo dell’evento, perché la sua motivazione era radicata nel corpo e non solo nella mente? La mia risposta è negativa. La forza trasformativa di un evento come la Rivoluzione Francese risiede proprio nella sua ibridità, nella sua capacità di essere, simultaneamente, un progetto dell’Illuminismo e una sollevazione popolare. La purezza dottrinale è un costrutto postumo, un’astrazione storiografica che appiana le asperità del reale per renderlo narrativamente ordinato.
Quindi, quando osservo un movimento contemporaneo, mi sforzo di distinguere tra la sua essenza, le sue rivendicazioni fondamentali, la sua posizione nella lunga durata dei conflitti sociali e le sue manifestazioni fenomeniche immediate, che includono inevitabilmente l’eterogeneità, e a volte la banalità, dei suoi partecipanti umani. Squalificare l’essenza a causa delle imperfezioni del fenomeno è un atto di miopia intellettuale. Significa rifiutarsi di comprendere che la storia, come la natura, non procede per linee pure, ma attraverso un groviglio di forze in cui il razionale e l’irrazionale, il consapevole e l’istintivo, si intrecciano inestricabilmente.
Il compito dell’osservatore critico, dal mio punto di vista, non è dunque quello di cercare la purezza, che è un fantasma ma di analizzare la potenza generativa del movimento nel suo complesso, di coglierne le tensioni interne e la sua capacità di produrre nuovi immaginari politici e sociali, al di là della retorica occasionale dei suoi singoli componenti. La verità di una protesta non risiede necessariamente nella perfezione logica di ogni suo slogan, ma nella sua esistenza stessa come sintomo di una frattura, di un disagio reale che merita di essere interrogato, non semplicemente deriso.