Uragano Katrina, 20 anni dopo alcune lezioni basilari sono ancora ignorate. Sarà per la prossima volta?
Che cosa ha insegnato l’uragano Katrina? Sviluppatosi dal 23 al 31 agosto di 20 anni fa, l’uragano provocò lungo la corsa quasi duemila vittime a New Orleans e dintorni (Fig.1). Sul bilancio federale, la catastrofe pesò circa 205 miliardi di dollari solo per riparare i danni. La cifra esclude quanto sborsarono le assicurazioni.

Sarebbe velleitario discutere qui ogni aspetto della sua eredità. Katrina ha modificato ogni prospettiva con cui affrontiamo gli estremi idro-meteo, dalla progettazione idraulica e urbana alla previsione e prevenzione dei rischi naturali; poi la gestione dell’emergenza, gli strumenti finanziari e assicurativi di salvaguardia e recupero. Non solo, il suo tragico impatto ha sollevato enormi temi di giustizia ed etica sociale, politiche urbane e ambientali, arte e cultura, educazione dei giovani, vita delle comunità, trasparenza mediatica.
In ambito idraulico, Katrina ha insegnato a progettare in base al rischio, non alla categoria del fenomeno, l’uragano. Non solo la forza del vento, ma le mareggiate e le precipitazioni estreme vanno associate all’analisi della subsidenza e dei meccanismi combinati all’origine delle inondazioni. Il Sistema di Riduzione del Rischio dei Danni da Uragani e Nubifragi di New Orleans (Hsdrrs) che vale 14,5 miliardi di dollari, prevede non solo argini e muri ma anche chiusure permanenti e temporanee di canali e pompaggi, standard più elevati di sicurezza, revisione indipendente dei progetti. La premessa — il rischio valutato in ragione secca del periodo di ritorno centennale — segna un passo avanti ma l’esito è ancora lacunoso. Il rischio si evolve sotto la minaccia dell’innalzamento del livello marino, per la crescente frequenza delle alluvioni lampo, con le trasformazioni territoriali che mutano esposizione e vulnerabilità.
Vent’anni dopo Katrina, New Orleans e la costa settentrionale del Golfo del Messico sono comunque più sicure. I livelli di difesa strutturale dalle tempeste d’acqua e di vento sono migliori (Fig.2), gli avvisi di pericolo più chiari, la logistica più smart. Eppure alcune tra le lezioni più imbarazzanti sono state ignorate. Sarà per la “prossima volta”?

Il rischio residuo non è affatto trascurabile. Gli argini riducono, non cancellano, il pericolo. In qualche caso, se sormontati, accrescono i danni e moltiplicano i lutti. All’interno delle barriere di difesa, costruite con dovizia, molte famiglie rinunciano ancora ad assicurarsi contro le inondazioni o si rifiutano di rialzare le loro abitazioni, una misura molto popolare negli Stati Uniti. Compiacenza, mappe confusive e costi elevati mantengono le misure di mitigazione a livello di proprietà privata parecchio disomogenee.
Se il pericolo delle mareggiate è stato contenuto, quello delle alluvioni lampo è stato sottovalutato. Gli extreme cluodbursts — vulgo ‘bombe d’acqua’ nella lingua di Dante, giacché chi coniò il sintagma fu anche presidente della Accademia dei Georgofili — allagano strade e case con troppa facilità. La capacità di drenaggio urbano è insufficiente e l’adeguamento delle reti va ovunque a ritmo di lumaca, mentre le mappe federali sottostimano ancora il rischio meteorico. E gli standard di progettazione si stanno adeguando alle evidenze del clima troppo lentamente.
Non solo acqua. Come scrissi tempo fa su questo blog a proposito di Katrina, acqua e fuoco non sono antagonisti ma colpiscono assieme (Fig.3). L’uragano Ida del 2021 ha poi dimostrato come una città possa rimanere asciutta e comunque restare a lungo al buio. La crisi fu causata dal crollo delle linee di trasmissione, non dalle inondazioni. Le microreti e le riserve di energia a elettrica scala locale restano progetti pilota, non un sistema diffuso.

Come gli italiani, anche gli americani amano tagliare i nastri, amano meno o per nulla la manutenzione. Le stazioni di pompaggio, le infrastrutture verdi e gli argini richiedono un’attenzione costante per far fronte ai cedimenti, alla subsidenza, all’innalzamento del livello marino. Se la finanza è stata più che generosa per costruire, si è rivelata assai avara sul lato del manutenere.
Nei vent’anni del ripristino, gli affittuari sono stati lasciati indietro. Tuttora, i programmi di aiuto sono pensati per i proprietari di case, dimenticando i piccoli affittuari. Non solo, questi programmi tendono a favorire la grande proprietà, mentre i piccoli proprietari hanno avuto e hanno tuttora difficoltà ad accedere agli aiuti. Per di più, c’è stata una netta riduzione delle offerte di affitto a prezzi accessibili. È un fenomeno che si è verificato anche dopo altri disastri e rende la vita degli sfollati ancora più grama.
Katrina ha promosso una netta revisione assicurativa tramite il Risk Rating 2.0, messo a punto dalla Fema, l’Agenzia Nazionale di Gestione delle Emergenze. Anche dopo la revisione dei prezzi, attitudine e convenienza ad assicurarsi continuano però a languire, se non diminuire. Non esistono aiuti federali basati sulla verifica della effettiva sostenibilità del premio da parte degli assicurati. E la sotto-copertura assicurativa cresce proprio mentre cresce il rischio.
La ricostruzione è iniziata e avviene senza adeguata pianificazione. L’acquisizione degli edifici disastrati si è allargata a macchia d’olio, parcella per parcella, senza un quadro regionale che stabilisca dove e come le persone possano trasferirsi dignitosamente, mantenendo viva la comunità. Non solo, le limitazioni a ricostruire nei luoghi a più alto rischio sono tuttora insufficienti.
Molte altre sono le ombre di Katrina. Si estendono sui diritti civili e le colture tribali, sulla sedimentologia e la ecologia costiera, sulla visione del futuro, la responsabilità della progettazione e della pianificazione, la resilienza delle comunità, lo sfruttamento della manodopera della immigrazione. Katrina ha insegnato come i disastri mettano in crisi soprattutto le comunità marginali e ignorate, qualche volta reiette. La sfida e l’eredità di Katrina sono le stesse che un cronista Rai individuò dopo la catastrofica alluvione genovese del 1970: bisogna “prevedere e provvedere”, trasformando ciò che già sappiamo in pratica quotidiana, non nelle “intuizioni” a posteriori.