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Tra Gaza e la Shoah ci sono almeno tre differenze. Che aggravano le responsabilità di tutti

Se a compiere gli eccidi non fossero stati gli israeliani, lo stereotipo dell’Olocausto sarebbe scattato automaticamente
Tra Gaza e la Shoah ci sono almeno tre differenze. Che aggravano le responsabilità di tutti
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S’è molto discusso se Gaza possa classificarsi come un genocidio, evidenziandone le somiglianze con la Shoah. Ma inutilmente, e per quattro ragioni. Intanto, per i sionisti la Shoah è unica, incomparabile con qualsiasi altro evento. Poi, contro ogni paragone del genere scatta subito lo scudo discorsivo, come l’ha chiamato un filosofo israeliano: la replica automatica di anti-semitismo.

Ancora, il genocidio è un delitto, per il quale occorre provare l’intenzione di commetterlo: probatio diabolica, se mai ce n’è una. Infine, allo stato attuale del diritto internazionale anche un genocidio perfettamente provato resterebbe impunito.

Più che sulle somiglianze fra Gaza e Shoah, allora, bisognerebbe insistere sulle differenze: tre, come vediamo qui. Ma non allo scopo di minimizzare; anzi, le tre differenze denunciate qui aggravano le responsabilità di tutti i soggetti coinvolti.

1. La prima differenza, tanto ovvia da passare inosservata, sta nel fatto che, mentre la Shoah non aveva quasi precedenti, Gaza richiama subito alla memoria la stessa Shoah. I sopravvissuti di Auschwitz hanno taciuto per trent’anni anche per questo, perché un orrore del genere era incredibile, improbabile, indicibile: non c’era una casella storica in cui collocarlo. Gaza, invece, ha un precedente ovvio: la stessa Shoah.

Anzi, se a compiere gli eccidi non fossero stati gli israeliani, lo stereotipo dell’Olocausto sarebbe scattato automaticamente: come per il Ruanda (1994) o per Srebrenica (1995). In questo, la Shoah ha davvero cambiato la nostra percezione degli eventi: almeno sino all’oblio digitale, di cui si dirà in conclusione.

2. La seconda differenza fra Shoah e Gaza consiste, brutalmente, nell’impossibilità tecnica del genocidio ebraico, opposta alla possibilità effettiva di un genocidio palestinese. Sterminare tutti gli ebrei, dopo una diaspora bimillenaria, era tecnicamente impossibile: beninteso, a meno di conquistare l’intero pianeta. Questa era la dimensione – folle, ma universale – del progetto genocida di Hitler.

Il genocidio palestinese, invece, è solo una delle tante rese dei conti mediorientali raccontate dal maggiore arabista vivente, Gilles Kepel. Netanyahu può sì minacciare il genocidio dei gazawi, tutti concentrati nella Striscia, o colonizzare ulteriormente la Cisgiordania, ma il suo obiettivo reale è ben più realizzabile: l’espulsione dei palestinesi, la fine dell’utopia dei due Stati, forse la Grande Israele.

Se il vero significato dei vari Accordi di Abramo, firmati da Netanyahu ancora nel 2020 e poi stracciati alla prima occasione, era che gli israeliani dovessero tenersi i palestinesi, dopo Gaza cambia tutto: ora i paesi arabi dovranno collaborare a una deportazione davvero biblica, trasferire oltre un milione di persone in un altrove tipo l’Indonesia.

Comunque, la seconda differenza – la riduzione del conflitto israelo-palestinese a una dimensione locale che conviene a tutti, e soprattutto agli occidentali – spiega il cambiamento dell’opinione occidentale nei confronti di Israele. Non c’entrano le foto di Gaza rasa al suolo; piuttosto, un Occidente che ha sempre percepito Israele come una propria costola, oggi lo avverte come un problema solo mediorientale.

Prima o poi doveva succedere: settant’anni di insediamenti hanno davvero portato Israele a somigliare ai suoi vicini mediorientali, ai quali, come agli stessi palestinesi, è estranea l’idea occidentale di Stato. Mutamento che la dice lunga sull’ipocrisia dei benpensanti occidentali, sottoscritto compreso, ritualmente favorevoli alla soluzione “due popoli, due Stati”. Soluzione forse ancora concepibile a Oslo nel 1993, nel clima della globalizzazione. Ma oggi, i successori dei negoziatori di allora – il Likud e Hamas, oggi entrambi curiosamente finanziati dagli Emirati del Golfo – non potrebbero essere più lontani da utopie del genere.

Come osserva ancora Kepel, il programma dei fanatici delle due sponde è identico: l’unica differenza è che gli uni vogliono l’applicazione della Bibbia, gli altri del Corano.

3. La terza differenza riguarda le condizioni della comunicazione, rispettivamente ai tempi della Shoah e di Gaza. Nel primo caso, era ancora tecnicamente possibile nascondere i campi di sterminio, appositamente costruiti lontano dalle città tedesche: al punto che gli Alleati e la stessa Chiesa di Roma hanno poi potuto essere accusati di complicità, per aver saputo e non aver parlato. Accusa plausibile, ma che non tiene conto della prima differenza: lo stereotipo della Shoah, prima della Shoah, non c’era.

Oggi, comunque, nascondere Gaza non è più possibile: i palestinesi possono essere sterminati in diretta, sotto l’occhio delle telecamere. Tanto ci sarà sempre chi potrà dire che le immagini sono state manipolate da Hamas, o create con l’intelligenza artificiale.

Il punto geopolitico è ovvio: quando mai ricapiterà una congiuntura internazionale più favorevole per chiudere definitivamente la questione palestinese?

Più interessante e ricco di conseguenze, però, è il punto comunicativo: nel meraviglioso mondo di Trump tutto è ormai possibile, anche olocausti o deportazioni in diretta. L’occupazione israeliana della Striscia permetterà ad arabi e occidentali, terrorizzati dall’eventualità di dover ospitare loro i sopravvissuti, di archiviare la pratica della deportazione. Ad archiviare la Memoria di tutto ciò, poi, penserà l’oblio complice di tutti.

Ma attenzione, l’oblio finirà per inghiottire insieme Gaza e la Shoah: entrambe torneranno indicibili, per tutti e per sempre.

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