Ai tempi pensai che la Rai senza Baudo si sarebbe svecchiata: non fu così. Anzi
di Stefano Maciocchi
Molti della mia generazione – quelli nati negli anni Sessanta per intenderci – non erano appassionati alla televisione di Pippo Baudo. Per noi era un presentatore “vecchio“, preferivamo “L’altra domenica” di Arbore e “Blitz” di Minà alla sua “Domenica In”. Credo di essere uno dei pochi italiani a non aver mai visto nemmeno una puntata della serie di “Fantastico“. Avevo venti anni e il sabato sera uscivo con gli amici.
Insomma i suoi programmi, che ricalcavano lo stile del varietà più classico, con i balletti, il comico di turno, la giovane soubrette e l’intervista al politico, apparivano datati e stantii. Questi ragionamenti deve aver fatto il presidente della Rai di allora, Manca, in quota Psi, che definì i suoi programmi “nazional-popolari” in senso dispregiativo, come lui stesso ebbe a sottolineare. Baudo se la prese e rispose piccato in diretta nella sua “Domenica In”. Fu il preludio della fine, momentanea, del rapporto tra Baudo e la Rai.
Confesso che all’epoca parteggiai per la decisione presa dai dirigenti della tv di stato. Pensai che, senza Pippo Baudo, la Rai avrebbe cercato di svecchiarsi. Ma mi sbagliavo. Il vuoto lasciato da Pippo Baudo fu colmato da una pletora di “nani e ballerine” in un degrado stilistico e professionale che ancora oggi è visibile anche ad un occhio distratto e disattento.
Capii allora che Pippo Baudo era sì antipatico e dispotico, attaccato ad un modello televisivo ormai logoro, ma che era un grande professionista, un uomo colto e che sapeva scoprire nuovi talenti come nessun altro ha saputo fare. E che la sua televisione, fintamente pedagogica e moralista, era un prodotto di qualità. E dio solo sa quanto oggi ci sia bisogno di qualità nel mondo dello spettacolo in Italia. E non solo.