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Ieri la morte di Carlo Giuliani, oggi l’inerzia per Gaza. Due fatti che mostrano un meccanismo ricorrente

L’ottimismo crudele, concetto elaborato da Lauren Berlant, descrive la contraddizione: l’adesione a promesse di progresso che, in realtà, servono a mantenere lo status quo
Ieri la morte di Carlo Giuliani, oggi l’inerzia per Gaza. Due fatti che mostrano un meccanismo ricorrente
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di Simone Millimaggi

Il 20 luglio 2001, Carlo Giuliani moriva durante le proteste del G8 di Genova, ucciso da un colpo di arma da fuoco esploso da un carabiniere. Oggi, mentre la comunità internazionale assiste impotente alla devastazione di Gaza, quel momento storico torna a interrogarci. A distanza di anni, questi due eventi rivelano un meccanismo ricorrente: la capacità del potere di rendere accettabile la violenza, mentre la società rimane ancorata a una forma di ottimismo crudele – l’illusione che, nonostante tutto, il futuro possa essere migliore, anche quando le strutture di dominio persistono immutate.

Byung-Chul Han direbbe che viviamo in una società che consuma la sofferenza come intrattenimento, senza mai tradurla in azione reale. Le immagini di Genova e Gaza scorrono sui nostri schermi, suscitano indignazione per qualche giorno e poi svaniscono nel ciclo infinito dell’informazione-spettacolo. Intanto, la violenza si normalizza e la nostra reazione si esaurisce in un like, un post, una condivisione effimera.

Foucault parlava di biopotere, il controllo statale sui corpi. Ma oggi Achille Mbembe ci costringe a confrontarci con la necropolitica: il diritto del potere di decidere chi può essere ucciso impunemente. Carlo Giuliani era un manifestante italiano, eppure la sua morte è stata trattata come un “danno collaterale”. A Gaza, i migliaia di civili palestinesi uccisi sono ridotti a statistiche, come se la loro umanità potesse essere cancellata da un linguaggio burocratico. Il neoliberismo non solo sfrutta ma decide anche chi è sacrificabile.

L’ottimismo crudele, concetto elaborato da Lauren Berlant, descrive proprio questa contraddizione: l’adesione a promesse di progresso e giustizia che, in realtà, servono a mantenere lo status quo. A Genova, migliaia di persone protestavano contro una globalizzazione ingiusta, credendo ancora nella possibilità di un cambiamento. Oggi, di fronte alle guerre e alle ingiustizie globali, quella stessa fiducia si trasforma in rassegnazione o in un’attesa passiva, mentre il sistema continua a riprodurre violenza e disuguaglianza.

Se c’è una lezione da trarre, è che la memoria di queste violenze non deve trasformarsi in passiva commemorazione ma in consapevolezza critica. Perché l’ottimismo diventa davvero crudele solo quando ci impedisce di vedere che il cambiamento non arriverà senza una lotta. E mentre il potere continua a decidere chi può vivere e chi deve morire, la domanda che resta è: quanto ancora saremo disposti a consumare la sofferenza, senza trasformarla in resistenza?

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