Nucleare di nuova generazione, i medici di Isde: “Antidemocratico, pericoloso e dai tempi lunghissimi”
Di Giovanni Ghirga, medico di ISDE ITALIA
In un momento storico in cui il ritorno al nucleare viene promosso come inevitabile, efficiente e moderno, sento il dovere civile e scientifico di spiegare con chiarezza perché, nel 2025, ritengo fondamentale dire no.
Dire “no” al nucleare oggi non è una posizione ideologica. È, al contrario, una scelta lucida e profondamente razionale. È il rifiuto di una promessa costosa, centralizzata, lenta e fragile, a favore di una traiettoria più democratica, più distribuita e soprattutto realizzabile nei tempi imposti dalla crisi climatica.
Tempi che sono strettissimi. Se nel prossimo decennio non riusciremo a contenere l’aumento delle temperature entro soglie gestibili, si aprirà lo scenario, già oggetto di studio nei principali Paesi del mondo, di interventi di geoingegneria solare: tecniche artificiali per schermare parzialmente la radiazione solare. Ma queste tecniche, pur teoricamente capaci di ridurre la temperatura terrestre, potrebbero generare gravi squilibri tra aree del Pianeta, siccità in un Paese, alluvioni in un altro, aprendo così scenari di conflitto geopolitico nuovi e pericolosi. Aumentare le incertezze di sistema oggi, anche sul piano energetico, è l’ultima cosa che possiamo permetterci.
Ci viene proposto il nucleare di nuova generazione, in particolare gli Small Modular Reactors (SMR), come svolta salvifica. Ma nel giugno 2025, nessun SMR è operativo su scala commerciale nel mondo. Sono tecnologie prototipali, dai costi incerti, dai tempi lunghissimi, incapaci di contribuire nel decennio cruciale. Parlare oggi di “nuovo nucleare” significa investire miliardi per un risultato forse tangibile tra il 2035 e il 2045, mentre le curve climatiche e geopolitiche richiedono risposte adesso.
Nel frattempo, esistono già soluzioni concrete, scalabili, mature: energie rinnovabili come il solare e l’eolico, ormai ampiamente competitive sul piano economico e rapidamente installabili; reti intelligenti in grado di bilanciare in tempo reale la produzione e il consumo, integrando anche piccoli impianti distribuiti sul territorio; accumuli distribuiti, come batterie domestiche e sistemi di stoccaggio a livello di quartiere o di distretto, i quali stabilizzano la rete e garantiscono continuità energetica; idrogeno verde prodotto con energie rinnovabili, essenziale per decarbonizzare i settori industriali più difficili, come la siderurgia e la chimica; infine, l’elettrificazione capillare, cioè la progressiva sostituzione dei combustibili fossili con tecnologie che funzionano a energia elettrica, come pompe di calore, veicoli elettrici, impianti elettrici per serre e irrigazione, alimentate però da fonti rinnovabili nei settori del riscaldamento, dei trasporti e dell’agricoltura.
Tutte queste tecnologie esistono, funzionano, si stanno diffondendo in centinaia di città e regioni del mondo e possono essere combinate in sistemi resilienti e flessibili. Non sono una promessa di laboratorio: sono già in atto.
Il nucleare non è neutro. È una tecnologia rigida, fragile, centralizzata, esposta a rischi asimmetrici e strutturalmente inadeguata nel contesto attuale. Ogni reattore è un potenziale bersaglio in un mondo dove i conflitti ibridi, i droni kamikaze e i cyberattacchi sono ormai strumenti ordinari di pressione geopolitica. L’Italia non dispone oggi e difficilmente disporrà, in un prossimo futuro, di un’adeguata capacità civile o militare per proteggere impianti ad alto rischio disseminati sul territorio.
In caso di incidente o attacco, l’evacuazione di centinaia di migliaia di persone sarebbe logisticamente ingestibile e socialmente devastante. Non esistono piani realistici. E lo “sheltering in place”, trovare subito il primo rifugio chiuso con pareti spesse, non protegge da gas e polveri fini/ultrafini radioattive, le quali penetrano con facilità negli ambienti anche a porte e finestre chiuse. Parliamo di un rischio potenziale di contaminazione radioattiva permanente dell’aria, del suolo, dell’acqua.
Esiste poi il problema delle scorie. Non si parla mai abbastanza del fatto che stiamo affidando ai nostri figli e nipoti il compito di custodire materiali radiotossici per decine di migliaia di anni. Anche i reattori più “avanzati” non eliminano il problema: lo comprimono, lo rinviano, lo rendono solo apparentemente più gestibile.
I Reattori Modulari Nucleari di Taglia Ridotta, pur vantando sulla carta vantaggi in termini di sicurezza, generano una maggiore quantità di rifiuti nucleari per unità di energia prodotta rispetto ai reattori tradizionali: scorie a bassa, media e alta attività risultano più voluminose e più reattive sul piano chimico e fisico, con implicazioni serie per lo stoccaggio e il confinamento. A causa della maggiore dispersione neutronica intrinseca nei design compatti, molti SMR risultano inferiori ai reattori attuali nella gestione e nello smaltimento dei radionuclidi chiave, aggravando la complessità del ciclo del combustibile.
Il nucleare non è democratico. Non lo installi su un tetto. Non lo usi per abbattere la bolletta in una scuola pubblica. Non lo decentralizzi. Non lo ripari con tecnici locali. Non lo controllano le comunità. È una tecnologia verticale che esige fiducia cieca e controllo centralizzato, mentre il futuro ha bisogno di reti distribuite, partecipazione e adattabilità.
È anche una dipendenza geopolitica. Nessun Paese europeo è autosufficiente nell’estrazione o nella lavorazione dell’uranio. Inoltre, i Paesi fornitori, come Russia, Kazakhstan, Niger, Algeria, non offrono garanzie di stabilità o alleanze democratiche. Spostiamo semplicemente la dipendenza dal gas a un’altra fonte instabile … e lo chiamiamo “indipendenza”.