
Quando è arrivato, il club rischiava il default e solo grazie a lui è riuscita a superare il guado delle difficoltà economiche. Di questo il mondo interista dovrà essergli comunque grato
Quattro anni straordinari. Fatti di emozioni, soluzioni tattiche innovative, bilanci in attivo, successi, non quanti avrebbe meritato e dovuto questa squadra. Tutto distrutto in una notte. È finito il ciclo di Simone Inzaghi all’Inter, che solo qualche giorno fa si pensava potesse prolungarsi in eterno o quasi, alla Ferguson. Invece come a volte succede nel calcio può bastare una sola sconfitta per azzerare tutto. Troppo forte il dolore della seconda finale di Champions League persa e dell’umiliazione storica contro il Paris Saint-Germain.
Finisce nella maniera peggiore, purtroppo, con una mezza fuga in Arabia, l’ombra di un’offerta evidentemente ascoltata e presa in considerazione già prima di una finale storica, in maniera non troppo corretta, il club evidentemente spiazzato dalla mancanza di alternative, una valanga di rimpianti. La notte maledetta di Monaco ha rovinato ogni cosa: dell’Inter di Simone Inzaghi alla fine ricorderemo per sempre soprattutto i 5 gol subiti dal Psg, e non come sarebbe stato giusto il miracolo di Inter-Barcellona, la più grande partita della storia nerazzurra che adesso finisce un po’ offuscata insieme al resto da questo nuovo 5 maggio. Come un’Inter di Cuper qualsiasi, e il paragone non è così casuale: è un altro della ristretta cerchia dei grandi perdenti del pallone, in cui è appena entrato Inzaghi, che può dire di aver perso due finali di Champions.
Il calcio è ingiusto. Perché una partita storta non dovrebbe poter cancellare quanto di buono fatto in quattro stagioni. Lo scudetto della seconda stella, innanzitutto, un traguardo storico, almeno quello rimarrà per sempre. Altri due però persi praticamente all’ultima giornata. Infatti il bilancio di sei trofei è insoddisfacente, perché quello pregiato è solo un campionato, il resto paccottiglia. La percentuale di vittorie più alta nella storia del club tra tutte le competizioni, a dimostrazione comunque di una continuità fuori dal comune. Un percorso europeo oggettivamente straordinario, due finali di Champions in tre anni con una squadra che non aveva minimamente i mezzi economici, e quindi anche tecnici, per raggiungerle: Inzaghi ha creato l’illusione collettiva dell’Inter big europea, di poter vincere senza spendere nulla, che poi si è così fragorosamente dissolta nella finale di Monaco. Un gioco brillante, innovativo, che nel calcio italiano si è visto raramente, decantato dagli esperti di tutto il mondo ma non da noi, per una specie di sciovinismo al contrario difficile da spiegare se non con la partigianeria un po’ tossica che condiziona il dibattito calcistico nel nostro Paese. Sono tutte stellette sul petto della giacchetta non più nerazzurra, a cui si aggiunge un merito più grande degli altri.
Inzaghi non avrà portato l’Inter in cima al mondo, e quest’anno nemmeno in cima all’Italia (l’onta più grave sul suo ciclo), ma ha salvato l’Inter. Letteralmente. Quando è arrivato, il club rischiava il default o quasi, e solo grazie a lui – ai suoi incredibili risultati, alle vagonate di milioni incassati con le cavalcate in Champions, alle plusvalenze fatte con giocatori normali valorizzati dal suo progetto – è riuscita a superare il guado delle difficoltà economiche, quest’anno chiuderà per la prima volta il bilancio in attivo, e può guardare al futuro con relativa tranquillità (almeno quello finanziario, quello tecnico invece è un’incognita spaventosa). Di questo il mondo interista dovrà essergli comunque grato, al di là di tutti i limiti della sua gestione e suoi personali, che pure sono sotto gli occhi di tutti: preparazione fisica altalenante e deficitaria, una costante della sua carriera, troppe letture sbagliate all’interno delle partite, in generale una mancanza di coraggio e tenuta mentale che la squadra ha dimostrato sempre nei momenti decisivi (dal recupero di Bologna nel primo anno, all’ultimo atto contro il Psg) e che probabilmente nasceva dal manico, dalla mente, cioè dal suo allenatore.
Dall’inizio alla fine, però, in tutti questi anni di Inter a Inzaghi è stato perdonato veramente poco. E questa probabilmente è una delle ragioni che ha inciso sulla sua scelta di mollare: perché rimanere ancora, e magari fare di nuovo la figura del perdente, in un club che non ha fatto abbastanza per supportarlo, a livello economico assolutamente nulla (imbarazzante ripensare agli innesti fatti sulla squadra campione d’Italia e chiamata a concorrere su tutti i fronti, ma anche i nomi che circolano oggi per rinnovare la rosa), poco pure sul piano mediatico. Lascia comunque una squadra più forte, e un club più sano, di quelli che aveva trovato. Partendo da questi presupposti, chiunque prenderà il suo posto per fare meglio di lui dovrà vincere lo scudetto al primo anno. Oppure la Champions. Auguri.